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Eugenio Finardi regala emozioni a grappoli, che rimbalzano su un pubblico ibernato nel deserto dell'anima
Un grande cantante per un piccolo concerto
Una serata organizzata all'insegna del provincialismo esasperato e degli ospiti illustri. Sacrificata l'arte sull'altare di una inconcepibile superficialità

di Rossella Bacchiocchi

Eugenio FinardiCiampino (RM). Gremita da un pubblico scarsamente eterogeneo, la piccola Sala Convegni del Comune di Ciampino somiglia quasi ad un ritrovo parrocchiale. Vestito di nero con una lunga coda di capelli ormai bianchi, Eugenio Finardi si presenta sul palco accolto dal calore dei più giovani e dal sussiego dei suoi coetanei per dar vita ad un concerto decisamente godibile.
Alcuni cori dei comunque pochi ragazzi presenti testimoniano un affetto mai sopito e la voglia di ascoltare con passione un artista che in trent’anni di carriera ha alternato alti e bassi ma regalato anche momenti straordinariamente lirici.

Qualche impagliato spettatore si lamenta del calore di alcuni applausi entusiasti, biasima chi canta insieme al cantante e tutto sommato conferma la sensazione che, trattandosi di una serata ad inviti, si sia puntato più sulle presenze illustri (Sindaco di Frascati e Sindaco di Ciampino) che su un pubblico effettivamente coinvolto.

Organizzato con sorprendente pressappochismo, il concerto si inserisce nel contesto del "Festival Torri d’Avvistamento", ma della relativa conferenza di presentazione, risultano informati solo gli organizzatori. Oltre ad uno spaesato Finardi, che a fine serata, dopo aver raccontato di avere un brevetto da pilota, scambia Ciampino con Fiumicino.
Personaggio in passato scomodo, capace di cantare l’amore come pochi e di assumere nette prese di posizione, il cantautore lombardo ha la possibilità di spaziare lungo un repertorio assolutamente articolato e di riproporre, attraverso "Cinquantanni", il suo più recente lavoro, parte della sua produzione meno nota rivestita da nuovi arrangiamenti.
Apertura riservata alle solitudini infinite di "Le ragazze di Osaka" e finale nel segno della tradizione con un breve estratto di "Hootchie Cootchie" prima di "Extraterrestre" e "Musica ribelle".

In buona parte elettrica, dura circa due ore l’esibizione live che riserva il meglio di sé con le canzoni politiche ed offre un momento di intensa commozione con "A mio padre" omaggio ideale al padre ormai novantatreenne e confronto generazionale sempre attuale. "Sono stato abituato ad un padre con una mentalità più dell’ottocento e quindi poco avvezzo ad abbracci o altri tipi di effusioni e cantare questa canzone è un modo per comunicargli il mio amore".

Un bel momento di nostalgia lo abbiamo avvertito con "La radio" – "In quei tempi si poteva parlare ancora di radio libere, ma poi andando avanti si sono aperte le porte ad una televisione condominiale: Canale 5".

Sensibile alle questioni ambientali e coinvolto umanamente nel sociale, Finardi riserva parole d’elogio per il lavoro di Gino Strada per Emergency e cerca a fatica di trattenere la propria amarezza per gli interventi denigratori di cui il medico è stato oggetto durante una recente puntata di un programma televisivo (Maurizio Costanzo Show puntata di lunedì 11 Novembre). "E’ assurdo attaccare uno come Gino Strada, uno che dice no alla guerra, perché lui la guerra l’ha vista e ne cura ogni giorno le vittime"
Scambia qualche battuta col pubblico, tiene il palco con la consueta professionalità, si lascia accompagnare dagli arpeggi di Saverio Porciello e saluta tutti quando, da poco scoccate le ventitré, pone fine con "Vil coyote" ad una performance comunque coinvolgente e appassionante.
E mentre signore riccamente ingioiellate ed anziani ugualmente intorpiditi guadagnano in fretta l’uscita, si spengono i riflettori su una serata della quale ci piace ricordare una delle tante frasi che, con dubbio effetto coreografico, sono state proiettate sulla parete di fondo della piccola sala.
"Una musica con cui giocare" – recitava la scritta. Ed al di là di ogni positiva interpretazione, a qualcuno sarà forse venuto in mente che invece, a giocare, siano stati proprio gli organizzatori.

In una piccola stanza assolutamente affollata ed altrettanto rumorosa, Eugenio Finardi ci riceve con squisita disponibilità. Curiosità e voglia di confronto, consiglierebbero un incontro più lungo, una concatenazione di domande a cui pare non sia possibile assoggettarsi perché l’irreprensibile Roberto di Pietra (per altro disponibilissimo e gentile) ci concede solo poco tempo.
"Se dovessimo seguire le regole del mercato non potremmo dire molto. Al massimo sarebbe consentito qualche slogan banale del tipo "niente guerra". E invece quando una canzone ti entra nell’anima lascia sempre un segno…"
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La sensazione che ricaviamo è che, a cinquant’anni suonati, dopo aver imparato a volare, Finardi si trovi quasi costretto a camminare sul filo di una realtà comunque difficile da accettare.

"Stiamo vivendo un periodo di reazione dove si tende a dimenticare il passato, a rimuovere determinati ricordi. Gli anni Sessanta e i Settanta non erano periodi facili. Mi ricordo che a scuola il maestro stabiliva l’ordine degli studenti in base al ceto sociale. Nei primi banchi i figli dei ricchi, o comunque dei benestanti e nelle ultime file i figli degli operai, dei contadini. Perché tanto poi sarebbero andati a lavorare e avrebbero lasciato la scuola!"
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Voce bassa e occhi attenti a tutto, di tanto in tanto si disseta con dell’acqua prima di esporre i propri pensieri. A modo suo è ancora un sognatore.

"I sognatori sono coloro che, ad un certo punto, hanno saputo parlare di diritti umani, di questioni sociali. Di femminismo. E la canzone ha comunque costituito un momento importante, un supporto valido per rafforzare certe idee."

Mi viene da domandarmi se al giorno d’oggi, come afferma Jackson Browne, la canzone non abbia perso parte del suo potere. Se il "risveglio delle coscienze" non appartenga alle utopie del passato.

"I tempi sono cambiati ma questo non vuol dire che si debba smettere di credere in qualcosa e di provare a dirla. Le canzoni scavano dentro, restano comunque nella testa. E quindi è possibile che qualche dubbio, qualche sospetto possa venir insinuato con esse. Penso a Mandela e a quanto il mondo dello spettacolo ha saputo testimoniare proprio attraverso le canzoni e il cinema. Ma gli esempi in questo senso sono infiniti…"

Gomiti sul tavolo e busto porto in avanti, Finardi si schernisce dovendo svelare la parte più sensibile e, per ovvi versi, più vulnerabile di se stesso. Gli menziono "Come in uno specchio" e "La vita fa male" per provare a quantificare l’eventuale distanza da quelle sensazioni.

"Queste canzoni sono tra quelle che amo maggiormente perché le sento più mie, più vicine a me stesso. Costituiscono lo specchio di un momento turbolento della mia vita… - cerca una via d’uscita – ma poi ci sono altre canzoni che vanno in altre direzioni, dal privato al pubblico…"

Il congedo, garbato e un po’ formale, avviene nel tramestìo di una stanza di sedie accatastate e di gente in transito. Dopo essersi lasciato trasportare da un sorriso di orgoglio pensando alla figlia di poco più di due anni, Finardi ci rimanda l’immagine di un affascinante cinquantenne sempre "on the road". Solo che la strada, per questa sera, è quella di casa. E degli affetti più cari.

 

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