L'addio
affettuoso dell'Italia all'artista che "non si sentiva italiano"
"Il suo nome era Gaberscick Giorgio ma lo chiamavan
Gaber"
Ed ora tutti a nutrirci di valori perduti ascoltando il suo ultimo
disco postumo
di
Rossella
Bacchiocchi
Il
suo nome era Gaberscick Giorgio ma lo chiamavan Gaber, si potrebbe
dire parafrasando una delle sue più celebri canzoni, “La
ballata del Cerutti”.
E se n’è andato in silenzio nel pomeriggio del primo
dell’anno dopo una lunga malattia che lo aveva estenuato.
Nella quiete della casa padronale vicino Camaiore, in Toscana, dove
da oltre vent’anni aveva imparato a ritirarsi e dove ha trascorso
gli ultimi giorni di vita accanto agli affetti più cari e
lontano dal clamore della città.
Milanese, avrebbe compiuto sessantaquattro anni il 25 gennaio, dopo
aver combattuto la poliomielite che già a due anni ne aveva
compromesso la mobilità di una gamba e che, una decina di
anni dopo, avrebbe fatto altrettanto con la mano sinistra. Ma il
suo temperamento sarebbe emerso ben presto.
A chi gli chiedeva come potesse suonare la chitarra rispondeva che
si ispirava al grande chitarrista gitano Django Reinhardt che però
aveva perso due dita nell’incendio del carrozzone in cui viveva.
E se qualcuno l’avesse visto giocare a calcio-tennis nella
rilassatezza della sua casa toscana ne avrebbe sicuramente colto
la ricostruita armonia di certi movimenti e la voglia, mai doma,
di partecipare, di esserci e di coinvolgere. Di lui si è
spesso parlato come di un personaggio schivo, persino difficile,
ma in molti ne ricordano la grande umanità, l’acuto
spirito di osservazione e quel vago e affascinante senso di malinconia
che non poteva proprio trattenere.
Diplomatosi ragioniere nel 1958, cede presto alle tentazioni jazz
in un gruppo formato dai fratelli Reverberi e da Paolo Tomelleri
che tende a recuperare la grande tradizione musicale del genere.
Insieme a Enzo Jannacci accompagna al contrabbasso l’amico
Adriano Celentano nelle prime esibizioni rock, quasi sempre da apripista
per artisti più affermati.
Con i Rocky Mountains dà vita ad un progetto musicale che,
sul finire degli anni Cinquanta, fonde country & western al
rock’n’roll esibendosi al Santa Tecla, celebre locale
milanese.
Ufficialmente firmata da Reverberi-Calabrese, la sua prima canzone,
“Ciao ti dirò”, nasce nel 1958, periodo di grande
impulso discografico italiano e di trionfo del mitico 45 giri.
Di li a poco la Ricordi gli sottopone un contratto che Gaber accetta
con divertito disincanto certo che, quella del cantante, non sarebbe
mai stata la sua professione. Eppure Giulio Rapetti, in arte Mogol,
avrebbe visto bene, cogliendo in lui tutte le doti di chansonnier
un po’ disilluso e altrettanto teatrale. Nel 1960 “Genevieve”
ne segna il primo passo da cantautore, con una ballata d’amore
dolce ed appassionata. E nello stesso periodo altri successi, da
“Torpedo blu” a “Barbera e champagne” fanno
di lui un crooner che recita le proprie canzoni e ne disegna i personaggi,
a volte strampalati, spesso surreali, decisamente sopra le righe.
Del resto un pò come i suoi colleghi di allora, Jannacci,
Celentano, Cochi e Renato, con cui sperimenta bizzarre soluzioni
musicali e cabarettistiche.
Artista eclettico e sensibilità acuta, non manca di cogliere
momenti lirici di straordinaria intensità, come in “Non
arrossire”, quasi un gioiellino rispetto alla media standardizzata
delle canzoni di allora. E poi nel ’62, dopo che a Sanremo
avrebbe cantato “Benzina e cerini”, arriva secondo al
Festival di Napoli interpretando “A’pizza” nientemeno
che con Aurelio Fierro.
Il feeling col Festival ligure prosegue anche nel ’64, dove
interpreta “Così felice” e nel ’66 con
“Mai mai Valentina” cantata insieme al celebre Pat Boone
fino al successo del ’67 di “E allora dai” in
coppia con Remo Germani.
Ma all’attività di cantante, più o meno scanzonato,
tende a contrapporre sempre di più la passione per il teatro,
per la canzone recitata ed intesa come contrappunto al testo teatrale.
Già nel 1961 con la compagna di allora, Maria Monti, aveva
allestito un recital dal titolo “Il Giorgio e la Maria”
che aveva riscosso buoni consensi al teatro Gerolamo di Milano.
Non meno frequenti diventano le apparizioni in televisione. Spettacoli
come “Canzoniere minimo”, “Milano cantata”
e “Le nostre serate” lo vedono frequentare le case degli
italiani dal 1963 al 1965, prima della consacrazione definitiva
con “Canzonissima” dove, nel 1969, propone la nota “Goganga”
e nel 1970 costituisce un duetto straordinario con Mina.
Poco più che trentenne, Gaber appare sempre più consapevole
del ruolo da attribuire alle sue canzoni. Non rinnega gli esordi
un po’ di maniera né le ballate più strampalate,
tuttavia, grazie all’apporto fondamentale dell’amico
di sempre, Sandro Luporini, riesce ad affinare la propria vena satirica
fondendo musica e teatro in opere di altissimo valore.
“Il signor G” diventa il personaggio-simbolo di un’inquietudine
generazionale che si interroga sul presente e cerca di guardare
avanti. In bilico tra amara ironia e sfrontata spavalderia, le storie
che interpreta fanno ridere ma anche riflettere. Un’umanità
piena di dubbi e di incertezze, di tic e di fissazioni, viene cantata
e descritta in canzoni come “Shampoo”, “Dilemma”,
“Io se fossi Dio”.
Voglia di cambiare ma anche necessità di analisi storica,
costituiscono i temi-guida anche delle successive opere teatrali,
da “Dialogo fra un impegnato e un non so” del 1972 a
“Far finta di essere sani” dell’anno dopo, fino
a “Anche per oggi non si vola” e “Libertà
obbligatoria” dove la solitudine, il malessere di vivere,
l’incomuicabilità più profonda diventano argomenti
spunto di riflessioni sempre velate da una sottile e graffiante
ironia.
Sono gli anni in cui si contrappone dialetticamente alle cosiddette
regole del mercato e, più in esteso, allo svilimento delle
personalità in nome della produzione. Riprendendo alcune
tematiche affrontate già da Pasolini e da altri intellettuali
di sinistra, si convince sempre di più della necessità
di svincolarsi da un sistema di produzione che, oggi, definiremmo
consumistico. Ma non abbraccerà mai fino in fondo i movimenti
politici e culturali del tempo prediligendo, per carattere, l’alternativa
individuale. Così nascono i successivi lavori teatrali, da
“Polli d’allevamento” del 1978 a “Io se
fossi Gaber” nei quali il Signor G pone l’individuo,
unico ed irripetibile, al centro delle problematiche.
La canzone diventa sempre meno importante, se intesa come puro divertissement,
come breve parentesi più o meno
spensierata. Ma se ne serve puntualmente nei suoi spettacoli quasi
per riassumerne i temi sviluppati o, semplicemente, per accompagnarne
i testi.
Decide che il ruolo del cantautore non si addice più al suo
modo di vedere ed afferma, a più riprese, la preminenza del
teatro (considerato un lavoro certo) rispetto alle canzoni, una
sorta di terno al lotto cui affidarsi per l’eventuale successo
in balia dei gusti del pubblico.
Negli ultimi anni sviluppa e precisa ancora meglio il concetto di
“teatro-canzone” con recital dal fortissimo impatto
politico e satirico e però anche con momenti di lievissima
poesia.
D’altro canto, che prendesse le distanze dall’universo
canzonettistico era pressoché inevitabile. Nelle sue storie
i protagonisti erano sempre stati gli emarginati, i disadattati.
Sin dagli esordi quando cantava, con Jannacci, di furfanti improvvisati
e sbruffoni patetici proprio negli anni del cosiddetto Boom economico
fino ad arrivare ai giorni nostri dove non mancano motivi di amara
ironia sul crollo delle ideologie e sul ruolo svolto dalla sinistra.
Autore di un canzoniere ricco e spietato, Gaber ha saputo fotografare
l’Italia meglio di chiunque altro attraverso la propria personale
lente d’ingrandimento.
Mai indulgente verso i potenti, sempre pronto a sorridere bonariamente
di disperati e perdenti, ha saputo guadagnarsi stima e apprezzamenti
proprio per la sua onestà intellettuale.
Fra i tanti commenti di amici e conoscenti e di infiniti estimatori,
emerge il giudizio di Dario Fo, amico di vecchia data senza però
una continua frequentazione, che ne parla come di un uomo simpatico
ed impegnato. Autore di canzoni epocali e appartenente ad un pezzo
della vecchia Milano critica e costruttiva. Capace di far riflettere
sui luoghi comuni e sulle ipocrisie quotidiane ma anche pronto a
ridere di se stesso. Persino della sua stessa malattia e della paura
di non farcela, confessatagli durante le prove dello spettacolo
televisivo di Celentano poco più di un anno fa.
Milanista come Jannacci, aveva amato il calcio con la passione pura
di un bambino e di un tifoso autentico. Più volte chiamato
in causa dai giornali sportivi, aveva manifestato entusiasmo puro
per il Milan degli Invincibili, per i trionfi della sua squadra
del cuore. Ma col tempo anche il calcio aveva perso potere di fascinazione
su di lui. Troppi giochi di potere, troppi legami con la politica,
ne avevano smorzato la passione facendo di lui un nostalgico appassionato
di un modo di vivere ormai perduto. Così come era solito
mettersi le mani nei capelli pensando alle scelte politiche della
moglie, Ombretta Colli, rispettandone però le opinioni da
uomo di cuore e di rispetto.
Adesso Gaber non c’è più.
Ma mai come ora se ne avverte il bisogno, l’urgenza quasi
assoluta.
Di lui resteranno oltre quarant’anni di belle cose. Fatte,
dette e lasciate intuire di sé.
Una storia fatta di canzonette e di testi profondi, di parole sferzanti
e di atti d’amore solo sussurrati. Di gesti, di emozioni e
d’arte pura. E un disco che uscirà, inevitabilmente,
postumo.
Realizzato con sforzi incredibili e con la ferma volontà
di chi vuole crederci fino in fondo, il suo ultimo album può
essere considerato come una sorta di nobilissimo testamento poetico.
Dieci canzoni di cui non si sa molto ma che, dicono gli amici e
Sandro Luporini co-autore dei testi, testimoniano la coerenza artistica
ed intellettuale di un grande uomo.
E proprio mentre il volto affranto del Presidente Berlusconi attribuiva
alta ufficialità al funerale celebrato nell’abbazia
di Chiaravalle, ci piace pensare che il piccolo, malaticcio Signor
G, abbia voluto dire di nuovo l’ultima disillusa e graffiante
parola dagli altoparlanti che diffondevano le note del suo disco
dal titolo, per nulla politicamente corretto, “Io non mi sento
italiano”.
E noi, neanche a dirlo, tutti vicini a lui. Dalla parte sua.
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