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Straordinario ed emozionante, il nuovo album di Rocco De Rosa, mischia suoni e umori differenti
Tornando a casa
Grandi musicisti per un disco dagli odori intensi

di Roberto Bacchiocchi

Non sempre sono i suoni. Non sempre sono le parole. E spesso neppure i testi.
A volte sono odori e colori che disegnano il corpo delle canzoni. E che diventano suoni, parole e testi. Non capita di frequente, però. Nella maggior parte dei casi è l’ascoltatore che ci mette del suo. Che trova, amore smodato di fan, passione e vigore anche laddove non ci sono. Che riesce ad apprezzare un disco brutto e ad appassionarsi incondizionatamente ad un artista.
Ma quando si esce da una libreria con un cd dopo esservi entrati convinti di acquistare un libro la sensazione è diversa.
Perché quel cd diventa più libro del libro ipotetico che si sarebbe potuto acquistare. E perché non c’è nulla da chiedere a quel cd inaspettato, nessuno sforzo da compiere per farcelo piacere e per rientrare dei soldi spesi. Niente di tutto questo perché quel cd, che si è sostituito al migliore dei romanzi che avremmo voluto leggere, ha già compiuto il miracolo di sorprendere. E all’ascoltatore non resta che lasciarsi emozionare.
Come quelle vecchie case di campagna che stanza dopo stanza, madia dopo madia, rivelano odori antichi e profumi inebrianti, il nuovo lavoro del musicista lucano Rocco De Rosa ha il sapore caldo di una sera di primavera. E tutti i profumi di una stagione ricca e sensuale.
Refolo di vento e brezza leggera che passano veloci e lasciano capelli arruffati e aria più fresca, Rotte distratte, arriva lieve al cuore ed emoziona per la sua disarmante purezza. Niente a che vedere con l’idea di un disco new age e di moda, il nuovo lavoro di De Rosa si dipana attraverso l’intreccio di note del piano, elemento portante dell’intero album.
Ancora una volta, il sin troppo abusato concetto di “villaggio” si ripresenta nella sua accezione più autentica e profonda. E si spiega visivamente attraverso le immagini di copertina, con i tegami in primo piano e le opere d’arte fiamminga sullo sfondo. Attraverso il chiaro scuro della luce che filtra dall’alto e che restituisce forma e colore agli oggetti. Lungo le assi di legno che sorreggono una foto antica in bianco e nero e le fronde di piante riflesse sul muro. Il villaggio di Rocco De Rosa è un luogo del cuore, una casa dove vivere la quotidianità fatta di fornelli e di quadri, di immagini e di ricordi. Un ambito nel quale muoversi e dove trovare la propria dimensione, ovvero il contesto nel quale fondere l’ancestrale lucano con l’etnico africano, le voci di un coro arberesh com quella , straordinaria, di Yasemin Sannino. Non è quindi un caso che il gruppo di musicisti di questo lavoro si chiami proprio Hata che, in lingua kikongo, vuol dire proprio villaggio. Non è un caso che la voce maschile e le percussioni appartengano al congolese Martin Kongo.
Anche il concetto di canzoni ne risulta compromesso, per certi versi sconvolto. L’arpa di Giuliana De Donno si contrappone emozionalmente alle note festose e vivaci della Etruria Criminale Banda che riempie il vuoto di malinconie mai sopite. Tra la Lucania di De Rosa e l’Africa di Kongo c’è di mezzo la vita. Che da una parte sono i fornelli da accendere per alimentare gli appetiti della carne. E dall’altra è il quadro che, caduto in un angolo, aspetta di essere appeso per appagare lo spirito.
Il lungo navigare attraverso rotte solo apparentemente distratte confluisce in un ambito territoriale indefinibile. Come certe sere dove si sentono profumi così intensi che sembra di stare altrove. Come certe note, dolci e lievi, che nel brano di chiusura, A casa, sono al tempo stesso abbraccio forte per il ritorno e pacca sulle spalle per un nuovo viaggio.

 

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