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«Addio Bruno» Lunedì i funerali di Trentin |
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È piombata all’improvviso la notizia della scomparsa di Bruno Trentin. Ha scosso gli animi dei molti che lo hanno conosciuto, ascoltato, amato. Per le sue idee, per la sua passione, per il suo rigore, per il suo stile di vita.
Il cronista che qui scrive lo ha seguito per anni, fin da quando era prestigioso dirigente dei metalmeccanici. Quel che ha imparato lo ha imparato da lui. Anche nel saper affrontare, come in queste ore, momenti di acuto dolore.
Già in questi mesi di sofferenza, dopo la caduta dello scorso anno, si è sentita la sua mancanza. Alludo all’assenza amara di una voce che sapeva guardare con lucidità e con speranza le vicende di un mondo, di un Paese, di una politica che a stento cerca il filo di un futuro incerto.
Autonomia, lavoro, libertà. Sono le tre parole care a Bruno Trentin. E tornano in mente ora, mentre tento di ripensare, così come l’ho conosciuta, la vita di un dirigente sindacale, di un dirigente politico, di un leader della sinistra italiana ed europea. A molti poteva apparire, di primo acchito, come un aristocratico, un raffinato intellettuale, chiuso nella sua torre d’avorio. Ma era lo stesso uomo che nell’autunno caldo affrontava tempestose assemblee operaie, a volte rischiava di buscare i bulloni in testa.
Aveva il gusto del confronto, aspro, non solo con gli avversari politici, con le controparti imprenditoriali o con dirigenti di partito. Sapeva affrontare anche masse di lavoratori agitati da ribellismi corporativi. Perché non li considerava plebaglia pezzente, capace solo di invocare le grazie di un boss o di un moderno principe o di protestare al vento. Considerava i «salariati» come dei protagonisti, dei «produttori». Così li aveva chiamati nel titolo di un bel libro: Da sfruttati a produttori. Era il senso di una battaglia fatta di unità, di lotte e di conquiste ma soprattutto intrisa di un concetto a lui molto caro: «autonomia». È la sua prima parola. Autonomia per il sindacato, per la Cgil, per i lavoratori, autonomia per «sé».
Non era facile riassorbire Trentin in qualche parrocchia grande o piccola. I suoi amici politici sono stati, certo, Norberto Bobbio, Riccardo Lombardi, Vittorio Foa, Pietro Ingrao e molti altri Ma non è stato mai semplice incasellarlo in una precisa corrente. Meglio ripescare le parole lontane di uno stimato giornalista, Giorgio Bocca. Nel 1975 scriveva su Il Giorno: «Quando parla uno come Trentin non ha senso chiedersi se appartenga alla destra o alla sinistra del partito comunista, perché quando parla uno come lui si capisce che il duro ripensamento critico e la ricerca creativa appartengono a tutti coloro che vogliono uscire dai luoghi comuni, dalle pigrizie».
È abituato fin da piccolo alle difficoltà, alle «scalate». Forse per questo ha continuato ad amare tanto la montagna, le rocce da dominare. Nasce in Francia a Pavie, vicino a Tolosa, nella regione della Guascogna, il 18 dicembre del 1926. Il padre Silvio Trentin, professore di diritto amministrativo a Ca’ Foscari, Venezia, non ha voluto giurare fedeltà al fascismo. È emigrato, prima facendo il contadino, poi il tipografo ad Auch, poi il libraio a Tolosa. Fonda un movimento di sinistra: «Libertà e federalità». E così operando incontra altri esuli come Lusso, Carlo Rosselli, Cianca, Amendola, Nenni, Saragat. Il figlio Bruno cresce in tale clima. Frequenta il liceo di Tolosa.
È un quindicenne dalle idee anarchiche che assiste all’invasione dei tedeschi, organizza con altri un «gruppo insurrezionale», finisce in carcere. Riesce ad uscire e va a fare il contadino per qualche mese in un campo di rifugiati spagnoli. L’8 settembre del 1943 padre e figlio decidono di rientrare in Italia ma sono arrestati. Silvio, sofferente al cuore, morirà il 12 marzo del 1944, a 59 anni, in una clinica di Padova.
Bruno, comandante di una brigata partigiana delle formazioni di Giustizia e Libertà conosce Riccardo Lombardi. Siamo nel 1946 ed entra nel Partito D’Azione. Si laurea così in giurisprudenza all’Università di Padova con Norberto Bobbio e vince una borsa di studio ad Harward per qualche mese. Ed ecco l’incontro decisivo con la Cgil e con Giuseppe Di Vittorio. Sta nell’ufficio studi, accanto a Vittorio Foa e decide d’scriversi al Partito comunista. Nel 1958 è vicesegretario della Cgil e nel 1962 va a dirigere la Fiom, il sindacato dei metalmeccanici. Un’esperienza prolungatasi per 15 anni, fino al 1977, e che trasforma la sua biografia. Trentin, con Piero Boni, con Pierre Carniti, con Giorgio Benvenuto, con molti altri, costruisce un’esperienza inedita di unità sindacale, di democrazia operaia.
Sono gli anni sessanta, quelli dell’autunno caldo. Ma anche in queste circostanze Trentin mette in campo una «filosofia» che lo accompagnerà nel corso degli anni sindacali. Quella contro la «faciloneria», contro quei dirigenti sindacali che amano sommare tutte le «esigenze», senza scegliere. È la polemica nei confronti di un sindacalismo modello Cgt, fatto più di propaganda che di risultati.
Così è contrario - ma resta in minoranza - agli aumenti eguali per tutti, battendosi per il cosiddetto salario di qualifica. Perché la qualifica, la professionalità, è frutto di sacrifici, di studi di impegno «da far pagare al padrone». Sono tempi non facili, di scontri anche nel Pci e negli stessi organismi dirigenti della Fiom, ad esempio quando occorre battersi per i nuovi organismi di base, al posto delle vecchie commissioni interne. C’è negli interventi di Trentin un’ossessione continua, la determinazione a puntare più sugli assetti di potere nella fabbrica e nella società che alla redistribuzione del reddito. È il braccio di ferro instaurato a Mirafiori, proprio nell’autunno caldo, tra il sindacato che vuole i delegati e «Lotta Continua» che invoca cento lire all’ora d’aumento salariale e disprezza gli «accordi-bidone».
Dopo l’esperienza tra i metalmeccanici Trentin approda alla segreteria della Cgil e, nel 1988, assume la carica di segretario generale. Sono gli anni della concertazione, allorché, nel 1992 (governo Amato) firma un accordo che cancella la scala mobile senza contropartite e poi si dimette. Ha agito per senso di responsabilità, di fronte al tracollo economico ma denuncia il condizionamento del «male oscuro» che percorre le correnti politiche della Cgil (in seguito superate).
Un anno dopo contribuisce a costruire un’intesa (governo Ciampi) con un nuovo sistema contrattuale come alternativa alla scala mobile. È lui, da segretario generale della Cgil, a promuovere quella che diventa la nuova organizzazione degli atipici, il Nidil. E sempre in quel ruolo consegna al suo sindacato, attraverso una lunga discussione collettiva, una piattaforma per il futuro, un «programma fondamentale» imperniato sui diritti e sulla solidarietà.
Abbiamo citato la parola autonomia. Bisogna citarne un’altra: lavoro. E qui arriviamo ai suoi ultimi impegni, durante l’esperienza di euro parlamentare per i Ds e a capo dell’ufficio programma del partito guidato da Piero Fassino. Trentin non può ipotizzare una sinistra staccata dai temi del lavoro. L’obiettivo sta nel cambiare il lavoro nei suoi aspetti di fatica e di stress, ma anche nel rapporto con le gerarchie proprietarie, senza chiudersi in una nostalgica difesa del fordismo. Il perno centrale sta nel «sapere», nella conoscenza, da conquistare giorno per giorno.
Anche per queste ragioni confessa, nella sua ultima intervista, a proposito del futuro partito democratico, che vorrebbe morire socialista. Perché tutto si può buttare, dopo il crollo del cosiddetto socialismo reale, ma non la possibilità di rendere gli uomini e le donne che lavorano non oggetti inanimati, bensì dei protagonisti. È un po’ il senso delle sue parole durante un incontro con un gruppo di studenti che qui mi piace rammentare. E così arriviamo alla terza parola: «libertà», la libertà di vivere una vita degna di essere vissuta. Sono il modo migliore per ricordarlo: «Mi chiamo Bruno Trentin, ho 71 anni. Ho passato tutta una vita nel lavoro sindacale. Probabilmente questa scelta l’ho fatta perché ho scoperto, anche quand’ero molto giovane, nella classe lavoratrice, una straordinaria voglia di conoscenza e di libertà, proprio in quei lavoratori che non avevano avuto la fortuna di un’educazione, di partecipare ad un’esperienza di studi. Proprio lì ho trovato un bisogno straordinario, molto più grande di quello di avere un alto salario, ecco, di diventare persone libere, di esprimersi attraverso il proprio lavoro liberamente, di conoscere. E questo spiega anche la grande fierezza, che risorge continuamente nel mondo del lavoro, in tutti i continenti, in tutti i paesi. Questa è la cosa che mi ha profondamente affascinato e che mi ha dato la voglia di mettermi proprio al servizio di questa causa».
Uomini come Bruno Trentin, sono nati e vissuti per questi ideali. Qualcuno oggi sostiene che sono ideali morti e sepolti. Perché tutto è cambiato e quell’antico, orgoglioso mondo del lavoro non esisterebbe più. Come se nelle nuove forme lavorative, quelle che impegnano milioni di giovani e meno giovani, non rinascesse una spinta proprio alla riconquista di spazi di libertà e autonomia. È la lezione che nasce dagli ultimi scritti di Trentin, nella sua tenace e troppo spesso ignorata scrittura di un programma per la sinistra. Dove non ci si rifugia nella nostalgia del passato ma si delinea una strategia innovativa basata su nuovi obiettivi. A cominciare da quelli che parlano di conoscenza, di formazione, le armi moderne per rendere davvero ancora una volta liberi milioni di donne e uomini che trascorrono gran parte della propria vita, anche dopo il duemila, lavorando. E connotando così profondamente le proprie esistenze.
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