Da anni ormai, il cinema italiano ,tenta disperatamente di riemergere da quella melma putrida di "non-creatività" ,nella quale è miseramente precipitato. Ma è pur vero che, seppur di rado, qualche autore con idee nuove, dopo mesi, forse anni, di sacrifici e di colloqui con  produttori ottusi

, fa ritorno al suo appartamento in affitto, gaio e vittorioso: questo non solo perchè ,finalmente, qualcuno si è degnato di ascoltarlo fino alla fine(e magari è stato tanto diligente da leggere addirittura il suo soggetto) ma anche grazie alla dea bendata, che gli ha concesso di stringere la mano ad un collega dei signori prima citati, il quale si è dimostrato ben disposto a prendere le distanze dalla mentalità tipicamente romana di buona parte dei cinematografari  "sgancia euri", che potremmo ironicamente definire, mentalità del "facce ride e basta". In questo caso, l'autore è Stefano Bessoni. Il suo lungometraggio d'esordio: Imago mortis.

Bessoni si dimostra un'attento studioso della messa in scena e della costruzione dell'immagine. Imago mortis, thriller esoterico dalle atmosfere gotiche, è una storia di fantasmi e macabri delitti, ambientata in una scuola di cinema. Protagonista è Bruno, ragazzo tormentato e introverso, che tenta di superare il trauma subito a causa della morte dei genitori. Fin dai primi minuti di proiezione, appare indiscutibile la bravura registica di Bessoni, nella scelta delle inquadrature e nell'uso dei sempre gustosi carrelli, anche se questi ultimi, con il procedere della narrazione, possono, a tratti, risultare eccessivi. Da non tralasciare la fotografia: delicata ma allo stesso tempo affascinante e ben dosata, che sembra divenire una sorta di proiezione dell'anima di Bruno, oscurata dal timore di bizzarre apparizioni che, in più di un'occasione, lo inducono a dubitare della propria salute mentale. L'edificio della scuola riesce a comunicare quella sensazione "disturbante", che non scade mai nell'angoscia vera e propria( a differenza del condominio,presente nel fantastico e spaventoso "Rec"). Ciò, probabilmente, è dato dall'interno dell'edificio, fatiscente e squallido e dal grigiore di cui si nutre Torino, città nella quale è ambientato il lungometraggio.

Imago mortis, dunque, presenta un' impronta fortemente classica, un richiamo alle "ghost-story" in stile "Giro di vite" di James,  alle colonne sonore e alle ambientazioni tipicamente Burtoniane. Ciò, oltretutto, è una evidente scelta autoriale; infatti lo stesso Bessoni, durante la conferenza stampa, ha rettificato la sua ammirazione per cineasti quali Tim Burton, Terry Gilliam e per l'espressionismo tedesco. L'omaggio a quest'ultimo è presente nei titoli di testa, quando la macchina da presa sorprende Girolamo Fumagalli all'interno della sua cripta, intento a strappare i bulbi oculari di una candida fanciulla, che ricorda quelle  innocenti e bellissime vittime, di cui si nutriva il mostro di Stoker. Tutto ciò , dunque, fa ben sperare. Infatti, leggendo queste righe, si è convinti , una volta raggiunto l'ingresso del cinema, di assistere ad una pellicola di qualità. Ed infatti è così. Imago mortis è un film di qualità ma purtroppo, solo da un punto di vista estetico.

Eh, sì,  perchè, diciamola tutta: quanti posti sono presenti in una sala cinematografica? Tanti, è vero, ma dipende anche dal cinema. Ma non torturiamo il nostro cervellino con assurdi conteggi e diciamo un centinaio. Di questi cento posti, quanti sono occupati da fanatici dell'inquadratura? Pochi, pochissimi. Cinque, forse otto. Gli altri , invece, sono la "vox populi", coloro che pagano il biglietto per lasciarsi trasportare da una storia accattivante e piacevole, in particolare se si tratta di un thriller . A costoro, ben poco importa della costruzione iconografica, dell'illuminazione, del montaggio e così via; costoro, quasi sempre, focalizzano l'attenzione su di un elemento centrale, non solo per loro ma per qualsiasi racconto: la costruzione narrativa. E forse, l'errore di Bessoni, sta proprio nell'aver trascurato questo aspetto fondamentale, riducendo la sua opera prima, ad un semplice "esercizio registico".

Infatti, fin dalla prima inquadratura che mostra l'esterno della scuola di cinema, la prima impressione è quella di ritrovarsi di fronte ad un omaggio ai film di Argento. In questo caso l'esempio di "Suspiria" calza a pennello(quest'ultimo infatti, si svolgeva anch'esso in un istituto scolastico. La differenza sta nella disciplina alla quale si approcciavano le allieve, ossia la danza). Proseguendo, troviamo ancora i riferimenti citati poco prima, inerenti l'Espressionismo( si pensi che uno degli insegnanti porta il nome di Caligari e l'istituto medesimo, quello di Murnau), di Burton e compagnia bella. Insomma, al termine della pellicola, l'idea che resta di Imago mortis, è quella di un film venuto al mondo solo per consentire al regista di deliziare il suo animo con gli autori e le pellicole da lui amate fin dall'infanzia, mescolandoli l'uno con l'altro: il diletto che ne trae, purtroppo, è solo per se stesso. Al pubblico resta ben poco, se non uno script mediocre, che risente delle eccessive riscritture(trenta all'incirca), il cui numero di "buchi" narrativi , supera di gran lunga quelli di un groviera, in aggiunta a sequenze poco chiare e incoerenti(la scuola di cinema è un edificio di una certa mole, in grado di ospitare numerosi iscritti, eppure gli studenti non sembrano superare la ventina) dialoghi che, spesso,  rendono le chiacchiere di "Cento vetrine" degne dell'Oscar ed una recitazione alquanto scadente. Ed il guaio è che ,in testa alla classifica degli attori peggiori, c'è proprio Bruno, il protagonista, colui che ha il doveroso compito di prendere per mano lo spettatore e condurlo nel SUO di mondo, cosicchè entrambi, possano divenire come carne e sangue, condividendo assieme gioa e paura, rabbia e dolore.

Bruno ,invece, se ne resta sullo schermo, lontano miglia e miglia dal pubblico. Ed il peggio  arriva quando i suoi occhi neri e malinconici, iniziano a luccicare per le lacrime, cosa che avviene più o meno in ogni sequenza, trasformando "Sweet November" in un remake di "Una pallottola spuntata". Il film vanta la presenza di attrici del calibro di Geraldine Chaplin (figlia del grande Charlie) e di sua figlia Oona. Quest'ultima, seppur troppo zuccherosa e prodiga di sorrisini e occhioni da cerbiatto(l'eccesso opposto di Bruno) risulta comunque gradevole, forse grazie anche alla solarità che la caratterizza in quanto persona fuori dal set, rendendola inevitabilmente simpatica agli occhi del pubblico. Sua madre, al contrario, mantiene la stessa espressione per tutta la durata del film, risultando una statua di cera intrappolata nel suo abito azzurro da contessa di fine ottocento.

Che altro dire? Possiamo solo augurarci che Bessoni sfrutti le sue doti registiche per copioni assai più maturi, evitando che il suo estetismo e la sua "poetica" autoriale,  soffochino le pagine scritte, nella speranza che possa raggiungere il pubblico in modo più concreto. Comunque, è da apprezzare il tentativo di emergere grazie ad un'opera che nulla ha a che vedere con le pellicole di molti giovani registi esordienti, che ripudiano il cinema, quello vero, per quel suo surrogato banale, patetico e volgarmente commerciale.