Addio
Albertone, l'italiano
di Antonello
De Pierro
"Si
è spento il cuore di Roma". E' solo una dell'infinità
di frasi che campeggiano sulla provvisorietà di fogli volanti scritti
dalla gente in occasione della scomparsa di Alberto Sordi. Pezzi di carta
provvisori, è vero, ma che a leggerli diventano vivi, prendono
corpo, aprono le valvole della commozione, spaccano il cuore. Li hanno
lasciati nella camera ardente, sul muro di casa, ovunque la sua presenza
abbia lasciato una traccia, scritti con l'inchiostro dei sentimenti puliti,
testimonianza di un affetto e di una stima che vanno al di là dei
confini dell'immaginario collettivo, che, a dispetto della provvisorietà
del foglio, sono indelebili, ben radicati nelle viscere dell'anima, accuratamente
coltivati nel giardino dei ricordi che si rincorrono nella memoria. Ed
è proprio sui percorsi della memoria, sulle pellicole dei suoi
190 film, nel suo particolarissimo slang romanesco, nelle centinaia di
proverbi e ormai storiche battute, che si è nutrito l'ingente carico
di emozioni montanti, che sono eruttate nella straordinaria partecipazione
di massa a cui abbiamo assistito increduli. Increduli perché forse
neanche lo stesso Albertone avrebbe immaginato una cosa simile, una tale
manifestazione di attaccamento alla sua persona. Increduli, e mettiamoci
pure storditi, perché risulta difficile credere che Sordi ci abbia
abbandonati. Risulta difficile crederci, perché egli sembrava immortale,
forse perché i suoi personaggi, quelli in cui si è infilato
nella finzione filmica, sono immortali. Ma purtroppo la realtà
spazza inesorabilmente via la fase onirica dell'incredulità, e
ci martella la consapevolezza che egli, come tutti, aveva scritto nel
destino biologico di dover passare veloce come uno scarabocchio sulla
pagina dell'esistenza. Spesso in caso di morte la retorica si insinua
inevitabilmente nei discorsi, ma mai come in questo caso, le parole spese
e i fiumi di inchiostro versati sono autentici, spontanei, frutto di riflessi
emotivi e mentali incondizionati. La fiumana di gente che è scivolata
nella sala Giulio Cesare del Campidoglio, o il mare di persone che ha
riempito piazza San Giovanni, sfidando il freddo pungente di un inverno
romano particolarmente rigido, mettono a fuoco in maniera lapalissiana,
quanto egli fosse amico del popolo e quanto fosse amato dal popolo stesso.
Perché da sempre egli è stato in pellicola il suo rappresentante,
interpretandone vizi e virtù, in spaccati di verità sociale
spesso crudi e spietati, ma sempre conditi da una straordinaria umanità
, perché egli stesso era il popolo. I personaggi dei suoi film
hanno accompagnato da sempre intere generazioni, hanno fatto ridere, a
volte commuovere, ma anche riflettere, facendo da specchio a tic e sfaccettature
sociali in cui tutti si riconoscevano e si riconoscono, restando sempre
spaventosamente attuali, senza cedere il passo all'incessante ed inesorabile
avanzare del tempo. Alberto Sordi era l'Italia, quella di ieri, quella
di oggi, quella di sempre. Quell'Italia che ora piange, ma sorride pure,
perché egli voleva così, non si può pensare a lui
ed essere tristi. Quell'Italia che si è unita per salutare per
l'ultima volta quella maschera strepitosa, quell'uomo grande e umile al
medesimo tempo, specchio del suo tessuto sociale, in cui ogni italiano
può trovare qualcosa di sé, anche se qualcuno, in preda
ad un aggravamento acuto di un perenne stato confusionale e di deterioramento
mentale, naturale sintomo di un'epidemica sindrome da follia collettiva,
provocata dal virus di un provincialismo esasperato, ha scambiato incredibilmente
delle inflessioni dialettali per una limitazione di italianità,
assicurandosi di diritto un posto in prima fila nella vetrina delle imbecillità.
Se quel cretino ha messo in atto una strategia di incremento di immagine
personale è riuscito nell'intento, ma se tutto ciò è
frutto di una manifestazione di odio interetnico, nutrito al banco di
un inconsistente humus subculturale, che gli ha bucato il cervello, allora
la cosa diventa inquietante. Ci viene comunque da immaginare con soddisfazione
solo per un attimo il funerale del povero demente, che non chiamiamo per
nome per non offendere la figura immortale di Alberto Sordi, in un giorno
che, rispondendo alla voce imperiosa di un sentimento inarrestabilmente
spontaneo, a cui non riusciamo proprio a mettere il morso, ci auguriamo
il più vicino possibile ( e perdonateci questa non voluta ostilità
nei confronti di un handicappato grave), con quattro poveri sciagurati
a versare qualche lacrima di circostanza e tutta l'Italia a versare liquido
salivare sulla sua effigie ridicola. Ma fortunatamente nell'Italia del
Nord, accanto alle minoranze con gravi limitazioni mentali, esiste una
grande maggioranza di italiani veri, fucina prolifica di idee e valori,
che prende le distanze dal seme fortunatamente circoscritto della demenza,
e riconosce l'inestimabile patrimonio artistico-culturale rappresentato
dal grande Albertone. Per tutti parla un ragazzo del Nord in un manoscritto
affisso al cancello della villa, costretto a chiedere perdono per le frasi
di uno scellerato.
"Si
è spento il cuore di Roma". La frase citata in apertura, scritta
in un momento di grande pressione emotiva, apparentemente può sembrare
vera e reale, ma, analizzandola col microscopio della riflessione razionale,
possiamo dire che Roma continuerà a vivere, e Albertone continuerà
a farlo con noi, accompagnandoci nelle nostre giornate, ricaricando le
consumate pile della quotidianità, regalandoci sorrisi, scuotendo
le coscienze, e perciò non suona retorico dire che se Sordi era
"il cuore di Roma", questo non si è spento, ma è
più vivo che mai.
A spasso tra i ricordi mi imbatto nell'unica intervista da lui rilasciatami,
sulle frequenze di Radioroma, e un brivido amarcord mi scende lungo la
schiena, mentre qualche lacrima ribelle, sfugge al controllo delle palpebre
e mi bagna le gote, per spegnersi agli angoli della bocca. Quei venti
minuti telefonici, sono risultati un concentrato di valori e di umanità,
di principi sani e morali, mi hanno arricchito dentro, mentre a ogni domanda
cercavo una risposta capace di farmi nutrire al banco della sua esperienza.
Come li capisco quei duecentomila che hanno riempito piazza San Giovanni
e hanno fatto la fila per l'ultimo saluto nella camera ardente. Come li
capisco in quell'atto di riconoscenza verso chi, nei momenti di sconforto
e tristezza, riusciva a strapparti un sorriso. Come li capisco i tassisti
(o tassinari) che hanno pianto "Zara 87" come fosse uno di loro,
e i vigili urbani che hanno portato il feretro del vigile "Celletti"
in spalla con i caschi da motociclista. Egli era uno di loro, era tutti
quelli la cui voce spesso viene soffocata dall'arroganza e dal potere
di pochi eletti, che dalla sua bocca sono riusciti a farsi sentire. E
paradossalmente Albertone, anche nella morte, ha disegnato il profilo
di una società malata e ingiusta, di classi privilegiate, dove
"Io sono io e voi non siete un cazzo". Riuscireste a pensare
ai cosiddetti V.I.P. (Persone Molto Importanti, come se gli altri non
servissero a nulla) fare la fila tra i duecentomila? Probabilmente no.
Anche per un estremo saluto ci sono stati figli e figliastri.
Ci ha colpito particolarmente l'assenza del Presidente del Consiglio Silvio
Berlusconi, che ha disertato sia la camera ardente, sia le esequie. Forse
Bossi aveva messo in atto l'ennesimo ricatto, minacciando una crisi di
governo? O forse in Sordi aveva visto lo spettro del giudice integerrimo
di "Tutti dentro", con l'ombra "rapace" e "terrorizzante
di "Tangentopoli"? A queste domande non avremo mai una risposta.
Non importa. Albertone ha avuto la sua gente, i romani, gli italiani tutti,
quelli che gli si sono stretti intorno per un abbraccio spontaneo, senza
nessun vincolo di protocollo , e persino la sua squadra del cuore, la
Roma, gli ha regalato una vittoria "impossibile". E scusate
se è poco. Ciao Alberto.
I pensieri dei navigatori su Albertone -->
Visita
il Forum ItalyMedia.it
Vai a Archivio
Editoriali |