Annamaria
Guarnieri, Danilo Nigrelli
TEMPESTA
da William
Shakespeare
nella traduzione di Salvatore Quasimodo
con Fabio Pasquini, Silvia Ajelli, Matteo Caccia,
Alessandro Quattro, Nicola Stravalaci
adattamento e regia Antonio Latella
scene e costumi Emanuela Pischedda
luci Giorgio Cervesi Ripa
musiche originali Chiara Cipolli, Echo Art
produzione Teatro
Stabile dell'Umbria
dall'11
novembre al 7 dicembre 2003
Dopo
l'allestimento de La dodicesima notte il Teatro Stabile dell'Umbria
prosegue l'indagine sull'universo shakespeariano, mettendo in scena
un'altra produzione per la regia di Antonio Latella, La Tempesta.
Nei panni maschili di Prospero vedremo Annamaria Guarnieri, prestigiosa
protagonista del teatro italiano, che ha caratterizzato e arricchito,
fin dalla nascita, l'attività dello Stabile umbro.
Note di regia
Una donna, un'attrice e la sua tempesta.
Una tempesta interiore, emotiva.
L'ultima tempesta prima di consegnarsi; orfana, delle magie, dei
segreti del mestiere, del suo essere Artista. Un viaggio doloroso,
verso se stessi, che a stento riesce ad andare avanti; per ritrovarsi
nel proprio naufragio.
Una sorta di confessione all'anima, un ultimo sguardo al tramonto,
prima del necessario perdono. Tutto nasce da lei, tutto è
in lei.
Ariel e Calibano convivono nello stesso corpo, sono i due lati di
una stessa medaglia, con cui giocare a sorte, dopo averli domati
con la disciplina, la costanza, il continuo esercizio.
Ariel: la forma che cambia forma nel suo non essere forma, la leggerezza,
l'espressione del pensiero mutato in favola, forse la vera essenza
dell'arte.
Calibano: la terra, il fango, le viscere, la passione cieca, l'incognito,
il caos, la paura, il talento primordiale, virile, erotico che spesso
vibra di febbre e non ha bisogno di luce né di parola. La
carne, l'anima, lo spirito insieme in un ultimo viaggio; prima della
separazione, della libertà di scegliere un nuovo luogo, un
nuovo corpo da iniziare, o dove addormentarsi, come dice Ariel,
sotto un fiore.
Le parole di Prospero per ascoltarsi, e farsi ascoltare; per ripercorrere
il suo essere Artista, prima di tornare, in punta di piedi ma a
testa alta, in quella Milano che con l'inganno, ha voluto esiliarla
per la sua nobile eleganza e per la troppo rigorosa etica.
Tutto avviene in una stanza, in un luogo mentale, affollato di giochi
a cui dare vita e parola; poiché il teatro è il più
grande gioco; e perché per recitare e farsi credere, bisogna
saper giocare con la verità dei bambini.
Play, Jane, spielen il verbo usato nelle altre lingue per dire recitare
(=giocare); è grazie al recitare che ciò che è
morto prende vita, è grazie al giocare che i pupazzi di questa
virtuale stanza, diventano personaggi di questa bellissima favola.
Miranda è una piccola ballerina dalle scarpe rosse, ricordo
lontano, fotografia ritratto del primo incontro con il "Signor
Teatro"; l'attrice si riconosce, si rivede in lei, vuole condurla
per mano verso la prima luce di un riflettore; difenderla dai pericoli,
darle la ragione, aiutarla a proteggersi dall'accecante e dionisiaca
passione; e solo quando il giocattolo prenderà vita, grazie
all'amore di Ferdinando (un soldatino di piombo con una gamba sola)
tutto potrà tornare ad essere tranquillo, le onde dell'animo
si calmeranno, e Miranda smetterà di essere un giocattolo
per andare finalmente libera tra la gente; fiera del suo amore,
che la proteggerà dal "Signor Teatro inganno".
Tutto questo solo per divertire e divertirsi un'ultima volta; quasi
come se fosse non un plateale e definitivo addio, ma semplicemente
un intimo e sussurrato testamento; un necessario punto, un girare
pagina, e un ricominciare con un nuovo libro, o meglio, un nuovo
diario. Restare fuori dalle insidie, e dalle ancora troppe tentazioni:
quelle dei luoghi comuni, delle idee artistiche altrui, o del facile
effetto per strappare consensi, applausi; deleteri e consolatori,
che portano alla perdizione dell'anima.
Forse la salvezza, se c'è salvezza, e nel provare a cercare,
cercare ogni volta da capo, la strada giusta, il sentiero senza
asfalto da percorrere per muoversi, liberi, nell'Arte del Teatro,
nel tentativo di riconoscere una propria arte, con cui rinascere
e morire, ogni volta, e ancora una volta.
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