Valeria Moriconi - Massimo De Francovich
G I N G A M E
di D.L. Coburn
traduzione di Vittorio Spiga
musiche Antonio Di Pofi
scena Bruno Buonincontri
costumi Cabiria D’Agostino
regia Piero Maccarinelli
produzione Pietro Mezzasoma
20 aprile - 16 maggio 2004
Con la splendida prova d’attori di Valeria Moriconi
e Massimo De Francovich, in Gin Game di Donald Lee Coburn, il Piccolo
Eliseo Teatro Studio chiude la stagione teatrale 2003/2004.
Questa divertente e insieme amarissima pièce, in scena dal 20 aprile
al 16 maggio, si avvale della regia di Piero Maccarinelli, le musiche
di Antonio Di Pofi, la scena di Bruno Buonincontri e i costumi di Cabiria
D’Agostino.
L'opera, vincitrice del premio Pulitzer nel 1978 e messa in scena nello
stesso anno al Teatro Eliseo da Giorgio De Lullo con protagonisti Franca
Valeri e Paolo Stoppa, racconta la partita per la vita di Fonsia e Weller,
due ospiti di una casa di riposo convenzionata. Il sipario si apre, infatti,
su Villa Bentley, uno squallido ospizio per persone anziane durante delle
domeniche pomeriggio, giorni tradizionalmente dedicati alle visite, e
spesso, perciò, umilianti e frustranti. Nessuna visita per i due
protagonisti: lei, divorziata da quarantatré anni, ha un figlio
e un nipote sedicenne, dei quali non ha notizie, e soffre di diabete cronico;
lui, che ha già girato vari ospizi, soffre semplicemente di vecchiaia.
Il gioco del Gin li distrae, apparentemente, dalla noia interminabile
dei pomeriggi sconsolati; ma le movenze di garbata situation comedy degenerano
presto in un dialogo sempre più violento, in cui i personaggi si
strappano reciprocamente di dosso tutto il loro ipocrita perbenismo: dietro
il gioco si nasconde, in realtà, il ripensamento di due esistenze
fallimentari, e il desiderio di ritrovare affetto e complicità.
“Gin Game – scrive l’autore nelle sue note alla commedia
- parla di persone che a tarda età si mettono ad analizzare molte
zone della propria vita rimaste inesplorate. Questa acquisizione di una
nuova coscienza di se stessi è una penosa esperienza, a qualsiasi
età. Ma, quando si avvicina la fine, avere rivelazioni sulla vita
intera e sulle scelte che si sono fatte immagino sia un’esperienza
davvero catastrofica. La vecchiaia diventa la lente d’ingrandimento
attraverso la quale sento di poter esprimere qualcosa. Nell’ospizio
si ripetono i modelli della vita. Mi sembra che Gin Game voglia dire che
non possiamo allontanarci troppo da noi stessi”.
Fonsia è una piccolo-borghese solida, una metodista
protestante. Weller un agente di commercio. Due personaggi qualsiasi,
esemplari di tanti altri pensionati, con una vita di sacrifici e qualche
sconfitta esistenziale alle spalle. Si conoscono qui, entrambi alla ricerca
di qualcosa che possa sconfiggere la loro solitudine. All’inizio
diffidano l’uno dell’altra, poi, complice il gioco delle carte,
si sciolgono progressivamente. Ma il gioco ha, per loro, significati completamente
diversi. Per Fonsia è un passatempo come un altro, un’occasione
per scambiare qualche parola, mentre per Weller rappresenta l'ultima possibilità
di dimostrare al mondo che lui conta qualcosa, di non essere un perdente
assoluto. Ecco che le mani di Gin diventano altrettante tappe di un gioco
della vita, e il linguaggio del gioco si fa spaccato e specchio deformante
del linguaggio della vita. Le “mani” sono talvolta tragicomiche,
talvolta furbe, talvolta disperate, e i due mostrano un po’ alla
volta il loro carattere, la loro indisponibilità, l’essere
tagliati fuori da una società che è sempre più feroce
contro chi non rappresenta più un “utile”, una possibilità
di profitto. Delusioni, gioie, frustrazioni, cattiverie e lucide invettive
compongono un mosaico poliedrico che rispecchia la complessità
dell’esistenza. Nessun altro entra nel gioco, come nessun altro
entra nella loro vita. Regressioni e crudeltà reciproche, ma anche
scherzi infantili e senili, autoironia, sarcasmo e, perché no,
una punta di patetismo. L’autore usa tutte le regole della scrittura
teatrale e, come i bravi autori americani, vuole commuoverci e farci sorridere
rifuggendo da intellettualismi; non si vergogna di svelare l’incredibile
complessità dei rapporti di questi due esseri umani per nulla disposti
a sentirsi sull’ultima spiaggia. Testo impossibile da rappresentare
senza due grandi attori capaci di mettersi a nudo e di usare tutte le
regole della comunicazione teatrale, con una grande disponibilità
e autoironia.
Piero Maccarinelli
Chi è il signor Coburn?
Una sera Coburn si recò al Dallas Theatre Center per vedere una
versione scenica di un racconto di Gogol, Diario di un pazzo. Il teatro
gli era completamente nuovo ed egli rimase sopraffatto da una simile esperienza.
Andò nei camerini a parlare con l’unico interprete, Tom Troop,
e, nonostante non avesse mai scritto per il teatro, si presentò
come drammaturgo; l’attore gli disse che avrebbe letto volentieri
i suoi lavori. Poco tempo dopo, Coburn cominciò Gin Game. Scrisse
otto pagine, poi mise da parte il manoscritto. Tuttavia, spronato dalla
fiducia del figlioletto Donn, passati ormai cinque anni dall’incontro
con Troop, si rimise alla macchina da scrivere e in quattro mesi portò
a termine l’opera. La lesse Don Eitner, il regista di Diario di
un pazzo, e decise di produrla in proprio all’American Theatre Arts
, un minuscolo locale di quarantanove posti a Los Angeles: andò
in scena il 24 settembre del 1976. Fu Hume Cronyn a decidere di portarla
a Broadway e di farla interpretare alla moglie, Jessica Tandy; Mike Nichols,
nel giro di poche ore, si disse disposto a curarne la regia. Senza muoversi
da Dallas, senza un agente, Coburn si limitava a rispondere al telefono
e a ricevere una serie di belle notizie. Dal manoscritto finito alla sua
produzione era passato poco più di un anno e, su ottantacinque
pagine di stesura, egli aveva cambiato solo tre righe. Nella sua stanza
d’albergo di Broadway, dove per la prima volta assisteva a uno spettacolo,
confessò che agli inizi aveva avuto un certo senso di colpa nell’essere
così nuovo al teatro. Un pomeriggio, prima di una replica dello
spettacolo, aveva visitato la Provincetown Playhouse del Greenwich Village.
“Pensai allora a Eugene O’Neill – dice Coburn –
e a tutti quei giovani drammaturghi con i bauli zeppi di commedie. E io...
Eccomi qui, a zonzo per la città con un grosso successo a Broadway.
Poi mi sono reso conto che tutti sono sopravvissuti grazie alle loro qualità
e al loro talento, ed è ciò che ho fatto io, anche se non
ho mai servito a tavola o guidato un taxi. Li avevo già battuti
all’età di dieci anni”.
Mel Gussow, New York Times
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