Incontro con
il grande regista, grande protagonista a Cannes con il suo ultimo
film |
Il
cuore amarcord di Pupi Avati |
L'amore per
la tradizione bucolica e le cose semplici il segreto del successo
della sua ultima fatica in celluloide |
di Valeria
Arnaldi
È
stato l'unico film italiano ad essere presentato a Cannes, dove
ha ottenuto un grande successo di pubblico e di critica. 'Il cuore
altrove', ultimo successo di Pupi Avati, sembra accontentare proprio
tutti. Restituisce al regista l'attenzione ed il plauso del pubblico,
ma porta fortuna anche agli attori. A Vanessa Incontrada, infatti,
per la sua interpretazione di Angela, è andato il Premio Giuseppe
De Santis come miglior volto emergente del cinema italiano, consegnato
nell'ambito del Festival 'Lo schermo è donna', tenutosi a Fiano
Romano dal 23 al 28 giugno. Di questo e di altro abbiamo parlato
proprio con Pupi Avati.
"Il
cuore altrove" ha segnato il grande ritorno ed il ritorno di un
grande Pupi Avati alla cinematografia. Cosa ha significato questo
film per Lei?
Sicuramente ha significato un riavvicinamento al pubblico
e alla cinematografia. Il film precedente "I cavalieri che fecero
l'impresa" era stata un'esperienza molto dolorosa. Avevo impegnato
quella che sentivo essere la parte migliore di me. Era stato un
grande investimento a livello creativo, di energie, immaginifico,
ed anche finanziario ed economico. Un dispiego di forze che ha prodotto
poi un risultato scadente. Ho pensato che il mio rapporto con la
cinematografia si fosse esaurito, che il pubblico mi avesse abbandonato.
Sono entrato in una crisi profonda, che mi ha portato a valutare
seriamente l'ipotesi di abbandonare la regia. E poi è arrivato Il
cuore altrove'. Un semplice ricordo di mia madre che si è rapidamente
trasformato in un testo. Era il momento ideale per scriverlo e realizzarlo.
Ne avevo bisogno. Raccontava quello che sentivo e mi ha fatto ritrovare
l'entusiasmo degli inizi. Si può dire che è stato terapeutico in
un certo senso… Mi ha restituito fiducia nella vita, nel mio talento,
nel lavoro. Ho rivissuto le emozioni di 34 anni fa, quando ho cominciato
a lavorare nel cinema e questo mi ha dato nuove energie, da riversare
nel film che stavo girando.
Lo spazio filmico come luogo della memoria. I suoi
film hanno sempre una vena autobiografica o comunque fanno respirare
l'atmosfera di una memoria collettiva in cui lo spettatore si riconosce
parte di un tutto. Che rapporto ha con il passato?
Sono molto legato alle mie radici. Credo che sapere
da dove si viene sia l'unico modo per capire dove si va. Sono cresciuto
in campagna e questo mi ha trasmesso un forte amore per l'oralità,
il racconto, il contatto. Sono stato tirato su con le favole della
tradizione contadina, e queste, unite alla vita in mezzo alla natura,
mi hanno insegnato a guardare il mondo con altri occhi. Ho sentito
il gusto della magia sottesa alla Vita, nel rapporto odio-amore,
vita-morte. Ed ho imparato un senso diverso dell'amore e del sesso,
più semplice, più 'naturale' appunto. Malgrado sia nato prima della
Seconda Guerra Mondiale, ho un legame molto solido con la mia infanzia
e riporto parti della mia vita sulla pellicola, nelle sfumature
di alcuni personaggi. I giovani non sono curiosi di quello che accade
loro, tantomeno di quello che è già accaduto. Si dà eccessivo peso
alla cultura del presente, a parer mio, in una sorta di autocompiacimento.
Questo non riesco a capirlo. Credo ci sia una grave responsabilità
a livello sociale da parte della nostra generazione, e ne sento
il peso. È dal confronto con il passato che prende avvio l'evoluzione.
È solo conoscendo ciò che c'è stato prima, che sia storia o memoria,
che si può contrastare la staticità.
Neri Marcorè e Vanessa Incontrada: due volti nuovi
del cinema. Cosa l'ha portata a scegliere due esordienti come protagonisti?
Sono due ruoli particolari e necessitavano di due
protagonisti particolari. Neri Marcorè ha una fisicità ed alcuni
lati caratteriali che mi hanno immediatamente fatto pensare a Nello.
Per Angela, cercavo una bellezza indiscutibile, che fosse energica,
comunicativa ma anche un po' crudele. Che lasciasse spiazzati. Volevo
che catturasse l'attenzione, che la pretendesse tutta per sé, proprio
per aumentare il contrasto tra il suo potere di comunicazione e
fascinazione e l'handicap fisico della sua cecità. In Vanessa ho
trovato tutto ciò. Ma a convincermi è stato soprattutto vederli
insieme; come parlavamo, come interagivano l'uno con l'altro. Erano
perfetti. Come li avevo immaginati.
Quanto c'è di lei nel personaggio di Nello?
C'è la mia adolescenza con i suoi timori, i pudori,
le difficoltà nel rapporto con le donne, ma anche la passione per
gli studi classici. Tutto è riconducibile a ciò che ho fatto, a
ciò che sono stato. E non si tratta solo di situazioni o di luoghi
visti, è qualcosa che va oltre, fatto di sfumature e di atmosfere,
fatto perfino di linguaggio. Alcune delle battute del film sono
frasi che ho detto, ho pensato o che forse avrei potuto dire nella
vita reale. Le ho messe in scena. Le ho ricordate così, fermando
in quelle parole tutto un periodo della mia vita. Periodo lontano
forse negli anni, ma prossimo nella memoria.
Cosa ne pensa delle nuove tendenze del cinema italiano
e della svolta che sta avendo grazie a registi quali, uno per tutti,
Gabriele Muccino?
Credo che sia la direzione giusta da seguire. Finalmente,
gli italiani hanno capito che devono abbandonare una linea più marcatamente
'razionale' per raccontare il nostro paese e le emozioni. Sono queste
ultime che coinvolgono il pubblico ed ecco spiegato il perché del
grande successo dei nuovi registi: lo spettatore non si sente più
estraneo al film, ma lo partecipa. Per lungo tempo, il cinema italiano
ha scelto la cosiddetta linea 'd'autore', un modo logico di fare
cinema e di comunicare, profondamente razionale ed ordinato. Ora
torna sui suoi passi e sceglie la rottura dell'emozione, arricchendosi
di sensazioni e di comunicatività. È l'emozione che fa il cinema
e a quella bisogna prestare la massima attenzione se si vuole coinvolgere
lo spettatore.
Ma i generi cinematografici esistono ancora?
È un discorso complesso. I generi esistono, ma bisogna
avere il coraggio di affrontarli. Io nel corso della mia carriera
l'ho sempre fatto e continuerò a farlo, ma ho come l'impressione
che molti si siano tirati indietro da questo confronto, come se
ci fosse una sorta di 'snobismo'. Questo oggi ci penalizza, perché
quello dei generi resta un discorso tutto da affrontare.
I suoi personaggi sono sempre dei 'solisti', la
loro è una voce che si alza fuori del coro. Questo è perché ritiene
che il solista abbia un punto di vista privilegiato sulla realtà
o è perché la condizione dell'artista, che le è propria, comunque
condanna alla solitudine?
Credo che ognuno debba tutelare la propria specificità
di individuo. Dobbiamo contrastare la tendenza all'omologazione.
Il bello non è potersi riconoscere come gruppo, ma è poter sentire
la propria individualità, in tutta la sua forza e la sua potenzialità.
Bisogna educarsi alla diversità come valore, e coltivarla. Il talento
e l'originalità sono le basi del futuro di ognuno di noi, perché
è nella diversità che risiede la vera ricchezza dell'uomo ed è su
di essa che bisogna investire, non siamo omologabili. Nessuno lo
è. Questo valore va affermato continuamente durante tutta la propria
vita.
Come Presidente di Cinecittà Holding, quali strategie
applicherà per salvaguardare e promuovere il cinema italiano?
Ce ne sono molte di probabili o possibili. Innanzi
tutto, è necessario consolidare il rapporto con il pubblico italiano.
Dobbiamo prestare maggiore attenzione al mercato domestico prima
di cercare di entrare in quello internazionale. La strada è però
lunga. Knowledge e qualità sono in netta crescita e questo mi fa
essere decisamente ottimista. Ma so che ci saranno delle difficoltà
e delle lungaggini. Dobbiamo migliorarci in continuazione. Lo stiamo
facendo e continueremo a farlo.
Lei nel e con il cinema lavora: riesce anche a
goderne come spettatore o il suo sguardo è ormai solo professionale?
Non vado mai al cinema - lo confesso. Seguo le proiezioni
private degli amici che mi invitano, ma solo perché sono amici.
Prima al cinema andavo ma ho smesso di farlo appena ho cominciato
a fare cinema. I film degli altri non mi hanno mai incuriosito troppo.
Ho sempre cercato di non farmi influenzare e di tutelare la mia
originalità. Cerco la spontaneità anche in me stesso, una sorta
di ingenuità.
Un'ultima domanda: chi sono gli attori italiani
con cui vorrebbe lavorare?
L'attrice che stimo di più adesso è Margherita Buy.
Le ho fatto un provino quando era agli inizi della carriera ma non
l'ho scelta. Ho ancora i sensi di colpa per non aver intuito il
suo grande talento. E per quanto riguarda gli uomini, l'unico vero
rammarico è di non aver lavorato con Alberto Sordi. Il ruolo del
sarto, che ha poi interpretato Giancarlo Giannini, ne 'Il cuore
altrove', in realtà lo avevo scritto proprio pensando a lui…
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