Il teatro? Bello
, ma profondamente ingrato |
Il
riso umano di Maurizio Micheli |
L’attore,
impegnato a Roma con “Mi voleva Strehler”, ci racconta
il grande amore per il suo lavoro, ma anche qualche rimpianto |
di Laura Porelli
Compie
ventisei anni "Mi voleva Strehler", il monologo esilarante,
venato di malinconia e graffiante ironia, scritto a due mani da
Umberto Simonetta e Maurizio Micheli nel 1978, riproposto per la
stagione 2003-2004 al teatro della Cometa di Roma. A raccontare
con superba maestria, fra verità autobiografica e finzione,
le amarezze e il desiderio di riscatto di Fabio Aldoresi, sfortunato
e incompreso cabarettista alle prese con un pubblico zotico e insensibile,
è lo stesso Micheli che tra il serio e il faceto con mirabolante
fluidità ci fa scivolare attraverso le mode e le sperimentazioni
del teatro degli anni '60-'70.
In una chiacchierata informale, rincorrendo l'attenzione del grande
artista livornese (non barese come i più potrebbero pensare),
già forse per carattere incline a seguire mille pensieri
contemporaneamente e per di più distratto dai ricordi innescati
dalla conversazione, ha preso forma il racconto di una vita dedicata
con qualche rimpianto, ma con grande divertimento, a quella forma
d'arte "profondamente ingrata" che è il teatro.
"Mi voleva Strehler": lei stesso
lo ha definito lo spettacolo di una vita. Quanto c'è della
sua vita di attore in questo testo? Le speranze, le delusioni e
le frustrazioni del cabarettista Fabio Aldoresi sono state almeno
in parte anche le sue?
Beh finora sì, è lo spettacolo della mia vita. Nella
speranza di farne uno meglio, naturalmente. Per ora è quello
a cui sono più legato anche perché è un po'
la storia della mia vita anche se esasperata, romanzata. C'è
del mio. Mi è capitato, come a Fabio Aldoresi, di lavorare
in un tremendo cabaret e di non essere mai capito. Non è
che facessi l'intellettuale. Facevo solo delle cose con un po' di
gusto. Ho sempre amato la comicità alla Woody Allen, alla
Peter Seller, quelle cose un po' raffinate, anglosassoni. Si dice
anglosassoni per modo di dire, anche se magari gli Anglosassoni
non sono affatto raffinati. Quella comicità carina, quella
che mi ha impedito di arricchirmi in questo paese di "estroversi",
dove l'ironia c'è e non c'è. Un paese dove l'ironia,
diciamo la verità, non attecchisce. Mi è capitato
il teatro universitario con le avanguardie degli anni '60 con lo
scimmiottamento dei vari living theatre e delle avanguardie mal
digerite anche lì senza troppa ironia, infatti poi ho smesso
e mi sono messo a fare delle cose mie con le quali non mi sono arricchito,
ma mi sono molto divertito. Quindi, sì. Molte cose sono vere.
Quanto è stato importante l'incontro
con Umberto Simonetta per arrivare alla stesura di questo testo?
Molto, perché Umberto era un carissimo amico e un grande
scrittore. Basterebbe citare "Tirar mattina" che è
un libro di una modernità sconvolgente che ha anticipato
i tempi. E' un libro che è uscito negli anni '60 e che ha
avuto un certo successo all'epoca, ma che poi la gente ha dimenticato.
Invece lui era un grande scrittore. Aveva il dono della sintesi,
della rapidità e poi una lingua modernissima, una lingua
parlata, ma con una sua valenza letteraria. E poi era un uomo spiritosissimo.
Vorrei trarre spunto da una cosa che ha
detto proprio Simonetta e che mi ha molto colpito, cioè che
quando l'attore entra in scena c'è una sorta di spietata
perlustrazione da parte del pubblico che in quel momento decide
se concederà o meno all'attore l'autorizzazione a farlo ridere.
Come vive un uomo di teatro questo momento di attesa prima di ricevere
l'approvazione del pubblico?
Malissimo! Se non hai l'autorità per far ridere, se la gente
non sa se ti meriti l'autorità per farla ridere il momento
è drammatico…Uno che fa questo mestiere già
da tanti anni ha per così dire questo "passaporto",
ma anche con tutto ciò capitano delle sere che, anche se
lavori da 34 anni, senti che il pubblico non ti sta dando quel permesso
e devi lottare per superare questi momenti di sospensione.
Cosa fa per superare questa difficoltà?
A volte insisto, a volte non insisto e mi… leggermente deprimo.
A volte mi viene anche la rabbia: il famoso giramento…
Questo spettacolo l'accompagna ormai da
25 anni: com'è cambiato in questo tempo il suo atteggiamento
verso questo testo? Come sono mutati i suoi sentimenti?
Non l'ho fatto sempre con la stessa continuità. I primi anni
l'ho fatto 300-400 volte. In alcuni periodi poi non l'ho portato
in scena. Negli ultimi tempi invece lo rappresento tutti gli anni.
Sono arrivato circa a 900 repliche. Comunque i sentimenti sono gli
stessi perché è uno spettacolo a cui devo molto. Mi
diverto ogni sera a recitarlo. Non mi diverto solo il sabato perché
devo farlo due volte. Diventa una cosa da polli da allevamento,
da catena di montaggio. In questi casi non c'è più
l'ispirazione. E invece l'ispirazione ci vuole. Il pubblico capisce
se lo fai meccanicamente o invece se ci credi.
Questo spettacolo l'ho fatto per molti anni con il mio pianista
Giovanni Del Giudice, che purtroppo è morto quattro anni
fa. Era la mia spalla anche se suonava solamente e cantava due pezzi
e basta. Mi è stato compagno per 20 anni. Questo spettacolo
continuo a farlo con grande divertimento, simpatia, affetto. Il
gusto di recitarlo è invariato. Il pubblico ride. E' con
me sia a Milano che a Roma. Lo spettacolo è molto milanese.
Pur essendo io centro-meridionale. Infatti parla di uno emigrato
a Milano. Funziona dappertutto. L'ho fatto ovunque anche nei paesucci
della Calabria, in Sardegna. Dappertutto. Ha sempre funzionato,
tranne che a Catania. Nell'84-85 andai a Catania, città che
io adoro perché bellissima. Non hanno riso mai. I giornali
scrissero: "il pubblico di Catania non è ancora pronto
per questo spettacolo". Io avevo dei "chili" di critica,
venivo già da molti anni di repliche fortunate. Anche nei
paesi della Sicilia si sono divertiti moltissimo, eppure…a
Catania non hanno riso. Questo è il mistero del pubblico.
A Napoli per esempio non ridono. Io non ho mai portato il mio spettacolo
in questa città perché a Napoli ridono solo delle
loro cose. Colleghi più illustri di me come Bramieri, Dapporto
a Napoli non andavano mai. Con me i napoletani hanno riso una volta
perché portai una cosa di Garinei-Giovannini "Buonanotte
Bettina", che era una storia di corna, che forse li intrigava.
Lei faceva televisione quando ancora questo
strumento mediatico proponeva una programmazione di grande qualità.
Che cosa manca alla televisione di oggi? Cosa è successo?
Non sarò certo io a dire la verità sulla televisione.
Se ne parla già tanto. Non vorrei sembrare uno di quelli
che rimpiange i bei tempi andati, però devo dire che quello
che penalizza la televisione oggi è la corsa spasmodica all'ascolto.
Questa è la sua rovina. E' una corsa verso il basso, perché
se tendi verso l'alto rischi di non avere ascolto. La Rai si è
adeguata alla televisione privata che è pur sempre una "bottega".
Si è adeguata e ha fatto malissimo. Io non l'avrei fatto,
ma io non sono un dirigente della Rai.
Quando è cominciata secondo lei
questa corsa verso il basso?
Quando io ho cominciato a fare televisione, facevo delle riviste
e nei primi anni non c'erano ancora le reti private e devo dire
che era un piacere lavorare in televisione. Era ancora una tv figlia
del teatro, in qualche modo. La grande rivista, per esempio, o gli
sceneggiati erano figli della prosa e della rivista teatrale. Quindi
c'era rispetto, professionismo, si facevano le prove. Ora che prove
si fanno? Non si fa niente. Oggi prendono gente della strada, la
mettono lì e questi diventano addirittura dei "maître
à penser". Meno male che c'è qualche fiction.
Gli attori lavorano, ma anche lì ci sono dei format, cose
già sperimentate, non si può rischiare di sbagliare,
è tutto un commercio, un industria. L'arte non c'è
più. Io lavoravo con dei registi televisivi come Antonello
Falqui che perseguiva l'arte e faceva una rivista perfetta secondo
la tradizione. Meno tradizionale Enzo Trapani, che era matto e faceva
tanti esperimenti, alcuni riusciti e altri no, ma per lo meno c'era
l'invenzione. Ora sono tutti format: funzionano i poliziotti? E
poliziotti siano. I medici? E allora medici. E così via.
Se uno fa un'altra cosa, che ne so un idraulico non funziona. E'
una follia. E questo un pochino purtroppo riguarda anche il teatro.
Molto meno, grazie a Dio, io sono qua e la gente viene, ma un po'
riguarda anche il teatro.
Questo
calo drastico della qualità della programmazione televisiva,
secondo lei, ha contribuito a involgarire i gusti del pubblico?
Quando dicono "questo vuole il pubblico" io mi imbestialisco.
Il pubblico non vuole questo. Il pubblico sta a casa. Uno che fa
il carrozziere oppure l'elettricista quando va a casa "si becca"
quello che c'è. Sei tu che hai deciso a priori per ragioni
di populismo, di demagogia, di guadagno sicuro di fare una determinata
programmazione. Se tu al pubblico fai vedere Woody Allen prima o
poi lo capisce. Ma Woody Allen pensa troppo e il pubblico non deve
pensare deve solo "consumare". C'è un discorso
a monte a cui la Rai si è completamente adattata. Per fortuna
ancora c'è qualcosa di bello come "Report" su Rai
3 o "Rai educational".
Lei è un attore brillante, ma nel
suo spettacolo c'è anche tanta malinconia. Perché
la comicità vera nasce sempre in un contesto drammatico,
dolente?
Il riso nasce dal dramma. Si ride di uno a cui capitano delle cose,
non drammaticissime, ma comunque drammatiche. Si ride di uno che
perde non di uno che vince. Certo non deve essere una tragedia perché
non potremmo mai ridere di Medea, povera donna. Il riso nasce dal
contrasto, penso al famoso saggio sull'umorismo di Pirandello o
a Bergson. Il riso nasce comunque sempre dall'umano. La marionetta
non fa ridere. La marionetta fa ridere se ha un momento umano. Il
pupazzo non fa ridere a meno che non si incarni in qualcosa si umano.
Paperino fa ridere perché è umano anche se è
un animale.
Nella sua vita artistica se guarda indietro
c'è qualcosa che avrebbe preferito non fare e qualcosa invece
di cui è particolarmente fiero?
Ci sono valutazioni varie. Se devo pensare a una carriera che avrei
potuto fare avrei dovuto fare meno il teatro e propormi di più
come attore cinematografico e anche televisivo. Anche la televisione
l'ho sempre fatta un po' per caso. Non sempre l'ho cercata e comunque
forse avrei dovuto cercarla di più. Avrei dovuto cercare
di fare delle cose che poi nel tempo pagano di più. A parte
che proprio pagano di più come soldi! Il teatro purtroppo
rimane nella memoria di chi ha visto uno spettacolo, nelle vecchie
locandine. Il teatro è ingrato, profondamente ingrato. Pensi
all'opera di Strehler e all'opera di Fellini. L'opera di Strehler
non c'è più. Ora si rimontano gli spettacoli seguendo
le indicazioni della sua regia ed è quasi lo stesso, ma questo
sarà possibile solo finchè son vivi i suoi assistenti
che ora hanno quasi settant'anni. Un giorno chi li farà?
L'opera di Fellini, invece, è tutta là in uno scaffale:
le varie cassette, i dvd, pellicole etc. Essere attori di teatro
è come scrivere sulla sabbia. Io sono contento perché
ho scritto qualcosina che è rimasta, ma certamente del teatro
non resta niente. Quindi di teatro ne avrei fatto un po' meno, pur
divertendomi molto a farlo. Se avessi fatto al cinema quelle cose
che ho fatto a teatro almeno sarebbero lì alla portata di
tutti. Invece io le devo rifare perché il pubblico le veda.
Il teatro vive ogni sera e ogni sera cambia perché c'è
un pubblico diverso. Lo spettacolo non è mai lo stesso, soprattutto
nel teatro comico. Il teatro comico cambia da una sera all'altra
perché è una lotta. Pensi al monologo. Il monologo
è una lotta. Ieri sera, per esempio, per tutto il primo tempo
non hanno riso. Ma perché? L'ho fatto novecento volte e hanno
riso…Nel secondo tempo, invece, hanno riso moltissimo. E'
una stranezza.
"Mi voleva Strehler", quando
fu rappresentato per la prima volta nel '78, era uno spettacolo
assolutamente all'avanguardia, ma mantiene tuttora una freschezza
che lo rende sempre attuale…
Devo dire che è uno dei due o tre spettacoli che si fanno
con lo stesso interprete da più di vent'anni. Uno naturalmente
è "Arlecchino servitore di due padroni" di Strehler
che si fa dal '47 prima con Moretti e ormai da quarant'anni con
Soleri. L'altro è "Mistero buffo" di Dario Fo che
è del '69. Non per paragonarmi a loro, ma se parliamo di
spettacoli legati a chi li fa da allora, ce ne sono veramente pochi.
Ora Dario non lo fa più perché ha un'età e
poi ha vinto il Nobel…
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