INTERVISTE ItalyMedia.it
CULTURA, SPORT e SPETTACOLO
039
Il teatro? Bello , ma profondamente ingrato
Il riso umano di Maurizio Micheli
L’attore, impegnato a Roma con “Mi voleva Strehler”, ci racconta il grande amore per il suo lavoro, ma anche qualche rimpianto

di Laura Porelli

Maurizio MicheliCompie ventisei anni "Mi voleva Strehler", il monologo esilarante, venato di malinconia e graffiante ironia, scritto a due mani da Umberto Simonetta e Maurizio Micheli nel 1978, riproposto per la stagione 2003-2004 al teatro della Cometa di Roma. A raccontare con superba maestria, fra verità autobiografica e finzione, le amarezze e il desiderio di riscatto di Fabio Aldoresi, sfortunato e incompreso cabarettista alle prese con un pubblico zotico e insensibile, è lo stesso Micheli che tra il serio e il faceto con mirabolante fluidità ci fa scivolare attraverso le mode e le sperimentazioni del teatro degli anni '60-'70.
In una chiacchierata informale, rincorrendo l'attenzione del grande artista livornese (non barese come i più potrebbero pensare), già forse per carattere incline a seguire mille pensieri contemporaneamente e per di più distratto dai ricordi innescati dalla conversazione, ha preso forma il racconto di una vita dedicata con qualche rimpianto, ma con grande divertimento, a quella forma d'arte "profondamente ingrata" che è il teatro.

"Mi voleva Strehler": lei stesso lo ha definito lo spettacolo di una vita. Quanto c'è della sua vita di attore in questo testo? Le speranze, le delusioni e le frustrazioni del cabarettista Fabio Aldoresi sono state almeno in parte anche le sue?
Beh finora sì, è lo spettacolo della mia vita. Nella speranza di farne uno meglio, naturalmente. Per ora è quello a cui sono più legato anche perché è un po' la storia della mia vita anche se esasperata, romanzata. C'è del mio. Mi è capitato, come a Fabio Aldoresi, di lavorare in un tremendo cabaret e di non essere mai capito. Non è che facessi l'intellettuale. Facevo solo delle cose con un po' di gusto. Ho sempre amato la comicità alla Woody Allen, alla Peter Seller, quelle cose un po' raffinate, anglosassoni. Si dice anglosassoni per modo di dire, anche se magari gli Anglosassoni non sono affatto raffinati. Quella comicità carina, quella che mi ha impedito di arricchirmi in questo paese di "estroversi", dove l'ironia c'è e non c'è. Un paese dove l'ironia, diciamo la verità, non attecchisce. Mi è capitato il teatro universitario con le avanguardie degli anni '60 con lo scimmiottamento dei vari living theatre e delle avanguardie mal digerite anche lì senza troppa ironia, infatti poi ho smesso e mi sono messo a fare delle cose mie con le quali non mi sono arricchito, ma mi sono molto divertito. Quindi, sì. Molte cose sono vere.

Quanto è stato importante l'incontro con Umberto Simonetta per arrivare alla stesura di questo testo?
Molto, perché Umberto era un carissimo amico e un grande scrittore. Basterebbe citare "Tirar mattina" che è un libro di una modernità sconvolgente che ha anticipato i tempi. E' un libro che è uscito negli anni '60 e che ha avuto un certo successo all'epoca, ma che poi la gente ha dimenticato. Invece lui era un grande scrittore. Aveva il dono della sintesi, della rapidità e poi una lingua modernissima, una lingua parlata, ma con una sua valenza letteraria. E poi era un uomo spiritosissimo.

Vorrei trarre spunto da una cosa che ha detto proprio Simonetta e che mi ha molto colpito, cioè che quando l'attore entra in scena c'è una sorta di spietata perlustrazione da parte del pubblico che in quel momento decide se concederà o meno all'attore l'autorizzazione a farlo ridere. Come vive un uomo di teatro questo momento di attesa prima di ricevere l'approvazione del pubblico?
Malissimo! Se non hai l'autorità per far ridere, se la gente non sa se ti meriti l'autorità per farla ridere il momento è drammatico…Uno che fa questo mestiere già da tanti anni ha per così dire questo "passaporto", ma anche con tutto ciò capitano delle sere che, anche se lavori da 34 anni, senti che il pubblico non ti sta dando quel permesso e devi lottare per superare questi momenti di sospensione.

Cosa fa per superare questa difficoltà?
A volte insisto, a volte non insisto e mi… leggermente deprimo. A volte mi viene anche la rabbia: il famoso giramento…

Questo spettacolo l'accompagna ormai da 25 anni: com'è cambiato in questo tempo il suo atteggiamento verso questo testo? Come sono mutati i suoi sentimenti?
Non l'ho fatto sempre con la stessa continuità. I primi anni l'ho fatto 300-400 volte. In alcuni periodi poi non l'ho portato in scena. Negli ultimi tempi invece lo rappresento tutti gli anni. Sono arrivato circa a 900 repliche. Comunque i sentimenti sono gli stessi perché è uno spettacolo a cui devo molto. Mi diverto ogni sera a recitarlo. Non mi diverto solo il sabato perché devo farlo due volte. Diventa una cosa da polli da allevamento, da catena di montaggio. In questi casi non c'è più l'ispirazione. E invece l'ispirazione ci vuole. Il pubblico capisce se lo fai meccanicamente o invece se ci credi.
Questo spettacolo l'ho fatto per molti anni con il mio pianista Giovanni Del Giudice, che purtroppo è morto quattro anni fa. Era la mia spalla anche se suonava solamente e cantava due pezzi e basta. Mi è stato compagno per 20 anni. Questo spettacolo continuo a farlo con grande divertimento, simpatia, affetto. Il gusto di recitarlo è invariato. Il pubblico ride. E' con me sia a Milano che a Roma. Lo spettacolo è molto milanese. Pur essendo io centro-meridionale. Infatti parla di uno emigrato a Milano. Funziona dappertutto. L'ho fatto ovunque anche nei paesucci della Calabria, in Sardegna. Dappertutto. Ha sempre funzionato, tranne che a Catania. Nell'84-85 andai a Catania, città che io adoro perché bellissima. Non hanno riso mai. I giornali scrissero: "il pubblico di Catania non è ancora pronto per questo spettacolo". Io avevo dei "chili" di critica, venivo già da molti anni di repliche fortunate. Anche nei paesi della Sicilia si sono divertiti moltissimo, eppure…a Catania non hanno riso. Questo è il mistero del pubblico. A Napoli per esempio non ridono. Io non ho mai portato il mio spettacolo in questa città perché a Napoli ridono solo delle loro cose. Colleghi più illustri di me come Bramieri, Dapporto a Napoli non andavano mai. Con me i napoletani hanno riso una volta perché portai una cosa di Garinei-Giovannini "Buonanotte Bettina", che era una storia di corna, che forse li intrigava.

Lei faceva televisione quando ancora questo strumento mediatico proponeva una programmazione di grande qualità. Che cosa manca alla televisione di oggi? Cosa è successo?
Non sarò certo io a dire la verità sulla televisione. Se ne parla già tanto. Non vorrei sembrare uno di quelli che rimpiange i bei tempi andati, però devo dire che quello che penalizza la televisione oggi è la corsa spasmodica all'ascolto. Questa è la sua rovina. E' una corsa verso il basso, perché se tendi verso l'alto rischi di non avere ascolto. La Rai si è adeguata alla televisione privata che è pur sempre una "bottega". Si è adeguata e ha fatto malissimo. Io non l'avrei fatto, ma io non sono un dirigente della Rai.

Quando è cominciata secondo lei questa corsa verso il basso?
Quando io ho cominciato a fare televisione, facevo delle riviste e nei primi anni non c'erano ancora le reti private e devo dire che era un piacere lavorare in televisione. Era ancora una tv figlia del teatro, in qualche modo. La grande rivista, per esempio, o gli sceneggiati erano figli della prosa e della rivista teatrale. Quindi c'era rispetto, professionismo, si facevano le prove. Ora che prove si fanno? Non si fa niente. Oggi prendono gente della strada, la mettono lì e questi diventano addirittura dei "maître à penser". Meno male che c'è qualche fiction. Gli attori lavorano, ma anche lì ci sono dei format, cose già sperimentate, non si può rischiare di sbagliare, è tutto un commercio, un industria. L'arte non c'è più. Io lavoravo con dei registi televisivi come Antonello Falqui che perseguiva l'arte e faceva una rivista perfetta secondo la tradizione. Meno tradizionale Enzo Trapani, che era matto e faceva tanti esperimenti, alcuni riusciti e altri no, ma per lo meno c'era l'invenzione. Ora sono tutti format: funzionano i poliziotti? E poliziotti siano. I medici? E allora medici. E così via. Se uno fa un'altra cosa, che ne so un idraulico non funziona. E' una follia. E questo un pochino purtroppo riguarda anche il teatro. Molto meno, grazie a Dio, io sono qua e la gente viene, ma un po' riguarda anche il teatro.

Maurizio MicheliQuesto calo drastico della qualità della programmazione televisiva, secondo lei, ha contribuito a involgarire i gusti del pubblico?
Quando dicono "questo vuole il pubblico" io mi imbestialisco. Il pubblico non vuole questo. Il pubblico sta a casa. Uno che fa il carrozziere oppure l'elettricista quando va a casa "si becca" quello che c'è. Sei tu che hai deciso a priori per ragioni di populismo, di demagogia, di guadagno sicuro di fare una determinata programmazione. Se tu al pubblico fai vedere Woody Allen prima o poi lo capisce. Ma Woody Allen pensa troppo e il pubblico non deve pensare deve solo "consumare". C'è un discorso a monte a cui la Rai si è completamente adattata. Per fortuna ancora c'è qualcosa di bello come "Report" su Rai 3 o "Rai educational".

Lei è un attore brillante, ma nel suo spettacolo c'è anche tanta malinconia. Perché la comicità vera nasce sempre in un contesto drammatico, dolente?
Il riso nasce dal dramma. Si ride di uno a cui capitano delle cose, non drammaticissime, ma comunque drammatiche. Si ride di uno che perde non di uno che vince. Certo non deve essere una tragedia perché non potremmo mai ridere di Medea, povera donna. Il riso nasce dal contrasto, penso al famoso saggio sull'umorismo di Pirandello o a Bergson. Il riso nasce comunque sempre dall'umano. La marionetta non fa ridere. La marionetta fa ridere se ha un momento umano. Il pupazzo non fa ridere a meno che non si incarni in qualcosa si umano. Paperino fa ridere perché è umano anche se è un animale.

Nella sua vita artistica se guarda indietro c'è qualcosa che avrebbe preferito non fare e qualcosa invece di cui è particolarmente fiero?
Ci sono valutazioni varie. Se devo pensare a una carriera che avrei potuto fare avrei dovuto fare meno il teatro e propormi di più come attore cinematografico e anche televisivo. Anche la televisione l'ho sempre fatta un po' per caso. Non sempre l'ho cercata e comunque forse avrei dovuto cercarla di più. Avrei dovuto cercare di fare delle cose che poi nel tempo pagano di più. A parte che proprio pagano di più come soldi! Il teatro purtroppo rimane nella memoria di chi ha visto uno spettacolo, nelle vecchie locandine. Il teatro è ingrato, profondamente ingrato. Pensi all'opera di Strehler e all'opera di Fellini. L'opera di Strehler non c'è più. Ora si rimontano gli spettacoli seguendo le indicazioni della sua regia ed è quasi lo stesso, ma questo sarà possibile solo finchè son vivi i suoi assistenti che ora hanno quasi settant'anni. Un giorno chi li farà? L'opera di Fellini, invece, è tutta là in uno scaffale: le varie cassette, i dvd, pellicole etc. Essere attori di teatro è come scrivere sulla sabbia. Io sono contento perché ho scritto qualcosina che è rimasta, ma certamente del teatro non resta niente. Quindi di teatro ne avrei fatto un po' meno, pur divertendomi molto a farlo. Se avessi fatto al cinema quelle cose che ho fatto a teatro almeno sarebbero lì alla portata di tutti. Invece io le devo rifare perché il pubblico le veda. Il teatro vive ogni sera e ogni sera cambia perché c'è un pubblico diverso. Lo spettacolo non è mai lo stesso, soprattutto nel teatro comico. Il teatro comico cambia da una sera all'altra perché è una lotta. Pensi al monologo. Il monologo è una lotta. Ieri sera, per esempio, per tutto il primo tempo non hanno riso. Ma perché? L'ho fatto novecento volte e hanno riso…Nel secondo tempo, invece, hanno riso moltissimo. E' una stranezza.

"Mi voleva Strehler", quando fu rappresentato per la prima volta nel '78, era uno spettacolo assolutamente all'avanguardia, ma mantiene tuttora una freschezza che lo rende sempre attuale…
Devo dire che è uno dei due o tre spettacoli che si fanno con lo stesso interprete da più di vent'anni. Uno naturalmente è "Arlecchino servitore di due padroni" di Strehler che si fa dal '47 prima con Moretti e ormai da quarant'anni con Soleri. L'altro è "Mistero buffo" di Dario Fo che è del '69. Non per paragonarmi a loro, ma se parliamo di spettacoli legati a chi li fa da allora, ce ne sono veramente pochi. Ora Dario non lo fa più perché ha un'età e poi ha vinto il Nobel…

 

Torna a Cultura, Sport e Spettacolo

Torna a Home Page Interviste