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Incontro con Fausto Russo Alesi all’Eliseo di Roma
Il primo Gaber senza Gaber
Il giovane attore, protagonista de “Il Grigio” di Giorgio Gaber, ci parla del suo spettacolo, dell’incontro mai avuto con l’autore per via della differenza generazionale, della sua interpretazione che prescinde totalmente da quella del grande artista scomparso

di Laura Porelli

Fausto Russo AlesiFausto Russo Alesi è uno dei giovani più promettenti del teatro italiano. Il Piccolo di Milano, insieme all’associazione “Giorgio Gaber”, gli ha proposto di mettere in scena, ad un anno dalla scomparsa dell’artista milanese, “Il Grigio”, il testo che Gaber nell’88 aveva scritto per sé stesso in collaborazione con Leporini. La lunga tournée di questo spettacolo-evento, che ha toccato i maggiori palcoscenici italiani, si è conclusa al teatro Eliseo di Roma, dove in un incontro informale Russo Alesi ci ha raccontato la sorpresa e l’orgoglio provati per l’attenzione che lo Stabile di Milano gli ha riservato. Tra difficoltà e grande entusiasmo, sotto la direzione dell’altrettanto giovane e brava Serena Senigaglia, ha preso vita, lontano da ogni intento di imitazione o di pura celebrazione, il primo Gaber senza Gaber.

Fausto, una persona che ti viene a vedere che cosa si deve aspettare? Quanto hai tenuto presente la recitazione di Gaber, la sua gestualità, nel comporre il tuo personaggio?

Per niente. Io credo che quello che debba aspettarsi il pubblico è innanzitutto di andare a vedere uno spettacolo di prosa, di teatro. Questo era uno dei pochi, pochissimi testi di Gaber interamente in prosa. Ci si deve aspettare di andare a vedere uno spettacolo dell’“autore” Gaber e non dell’ interprete Gaber. L’interprete Gaber era Gaber, non ci possono essere imitazioni. Ora abbiamo tantissimi bei documenti suoi, non c’è bisogno di imitarlo: sarebbe una commemorazione. Lo spettacolo non è questo. L’intento è quello di portare in scena oggi, non solo poi ad un anno e mezzo dalla scomparsa ma anche passati 15 anni dalla scrittura di questo testo che debuttò nel 1988, le parole di Gaber. Secondo me non si è lontani dal vero se si considera “Il Grigio” come un classico. Io mi sono rapportato al testo esattamente nello stesso modo in cui mi sarei rapportato a Sheakespeare, con lo stesso stato d’animo, con lo stesso tipo di approccio lavorativo. E’ ovvio che all’inizio ho dovuto superare lo scoglio di avere, per così dire, questo grande artista sulle mie spalle. La cosa più faticosa è stata comprendere che quello che facevo io era una cosa nuova. Una volta capito questo è partito un percorso totalmente autonomo e originale. Io non ho neanche visto il “Il Grigio” di Gaber, non so come lui lo facesse, tra l’altro non facendo parte della mia generazione, conoscevo Gaber solo attraverso i suoi dischi o le sue interpretazioni televisive. Nonostante questo mio approccio assolutamente neutro credo che Gaber sia profondamente insito nel testo, che ogni tanto emerga quasi inconsapevolmente dalle parole. Poi c’è anche una colonna sonora che è esattamente quella scritta per il testo. Ovviamente modificata: alcuni pezzi sono stati riscritti, arrangiati di nuovo soprattutto in relazione ad un interprete diverso. In questa versione per esempio c’è un’interazione fortissima fra musica e azione. Lo spettacolo è molto agito. Io credo che Gaber lo narrasse molto di più. Lo spettatore ha di fronte uno spettacolo di azione, rispetto a uno spettacolo di narrazione che poteva essere molto più vicino al percorso di Gaber del teatro-canzone.

Che cosa rappresenta questo “grigio” e che cosa innesca nel personaggio?

Questo “grigio” parte come un topo fastidioso che comincia ad insinuarsi nella vita del protagonista che va a vivere in campagna, in una casa perfetta dove lui crede di riuscir a superare tutti i suoi problemi, distaccandosi dalla volgarità delle cose. All’inizio è un topo e lui cerca di eliminarlo nei modi tradizionali, in una maniera anche molto comica e teatrale Poi questo topo comincia a diventare qualcosa di più: un problema esistenziale, un doppio di sé, un’altra parte di sé, che non si è mai riusciti a tirare fuori: l’alter ego di un uomo a caccia di sé stesso. Noi nella nostra messa in scena abbiamo accentuato proprio questo. Non a caso il topo non c’è, non si vede mai, lo si percepisce soltanto. Allora tutta la messa in scena va nella direzione di un teatro di evocazione come se questa scatola che rappresenta la casa fosse uno spazio mentale dove quest’uomo decide di andare a fare pulizia e dove quindi si scontra con le parti più profonde e oscure di sé.

Parliamo del rapporto di Gaber con la televisione: all’inizio egli afferma che è solo un oggetto e che la si può spegnere quando si vuole, poi invece si corregge e dice che quando si entra nel circolo della televisione non esiste nient’altro. Quali sono secondo te i danni della televisione?

La televisione è un mezzo molto invadente perché entra direttamente nelle case, nella vita quotidiana delle persone. Basta molto poco per entrare in possesso della televisione (basta accenderla) e questo comporta una grande responsabilità da parte di chi la gestisce. E’ diverso per il teatro. Per il teatro devi decidere di uscire da casa, di andare a comprare il biglietto, di andare a vedere quello spettacolo e non un altro, di non essere passivo mentre guardi un agito in cui ricercare qualcosa. Con la televisione sei passivo rispetto a tutti i bombardamenti che subisci, quindi chi fa televisione, chi fa i palinsesti dovrebbe fornire dei prodotti che possano aiutare a crescere, un’informazione oggettiva quanto più è possibile, in modo che ognuno possa farsi delle idee personali su quel che accade. Gli eccessi a cui ci sta abituando la televisione sono uno sfruttamento mediatico delle cose che avvengono, producono un bombardamento di situazioni, di eventi che finiscono per confondere lo spettatore.
Penso che sia importante che ci sia sempre qualcosa di rilevante da dire in televisione, questo è interessante per il pubblico. Certo ci può essere l’intrattenimento puro, ma dovrebbe essere limitato e invece tende a dilagare.

Fausto Russo Alesi in una scena dello spettacolo

Tu e Serena Senigaglia avete compiuto un piccolo miracolo, nel senso che pur giovanissimi siete entrati nel mondo del teatro dalla porta principale. Siete stati nei teatri più importanti e questo non è così frequente per i giovani attori soprattutto in Italia. Come mai succede questo secondo te?

Io credo che si faccia fatica ad aprirsi al nuovo, che fa sempre un po’ paura, quindi io sono molto onorato di aver avuto questa attenzione. Non penso che debba avvenire un cambio generazionale, ma sarebbe auspicabile un incontro, un dialogo fra le diverse generazioni. Io mi augurerei che all’interno di queste grandi strutture possa esserci un dialogo fra le nuove realtà del teatro, fra la mentalità, le esigenze, lo spirito, la sensibilità giovanili e l’esperienza e la sapienza di chi già fa questo mestiere da tanti anni ed è già affermato. Credo che la cosa più interessante sia proprio l’incontro: nel dialogo si possono fare grandi cose. Questo spettacolo alla fine è un incontro fra due generazioni.

Secondo te il pubblico dei grandi teatri, abituato ad una produzione per così dire classica è pronto ad aprirsi agli esperimenti dei giovani, ad un teatro nuovo, moderno come è il vostro, fatto di fisicità e di forte interazione con la musica?

Devo dire che questo spettacolo è stato accolto bene dappertutto e ha girato soprattutto nei grandi teatri. Tolto il fattore “gusto”, che è un fatto assolutamente personale, per cui una cosa può piacere o non piacere, io sono del tutto contrario ai pregiudizi, alle chiusure a priori. Se il pubblico dei grandi teatri non è pronto ad accogliere il teatro dei giovani è necessario metterlo nella condizione di esserlo. E’ esattamente come avere un figlio: se tu hai un figlio devi prendere atto del fatto che lui non è come te, è di un’altra generazione, ha esigenze diverse, se vuoi dialogare e intenderti con questo figlio, devi metterti in relazione con lui. Se vuoi crescerlo con i “paraocchi”, a modo tuo, senza ascoltarlo, crei solo danni, incomprensioni e non comunicazione. Se decidi di andare a teatro a vedere qualcosa di nuovo devi avere un atteggiamento di curiosità, di volontà di comprensione. Io quando un anziano mi racconta gli aneddoti della sua vita sono pieno di curiosità. Perché non dovrebbe essere possibile il contrario?

Gli anni ’70 sono stati per Gaber gli anni dell’impegno politico, gli anni ’80, a cui appartiene “Il Grigio”, quelli del ripiegamento intimistico, come definiresti gli anni che stiamo vivendo?

Sono gli anni in cui sempre di più ci si sente soli. Si conta sempre di più sulle proprie forze e si ragiona sempre meno in senso collettivo. Invece credo che sia necessario il confronto con gli altri e un interesse reale per il nostro “prossimo”. Solo così si può avere la speranza di vivere in un mondo migliore. Non ci si può chiudere nelle proprie quattro mura e dire: “Così sto bene!”.


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