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“Vecchi Tempi”: Umberto Orsini torna ai suoi esordi
Da Visconti ad Andò, l’odissea del tempo che passa
Con il celebre attore, ricordiamo le origini, il grande Visconti ed un modo diverso di intendere e fare il teatro, nell’affrontare la grande sfida di tornare ad essere sé stesso

di Valeria Arnaldi

Umberto OrsiniDopo trentun anni di brillante carriera, Umberto Orsini torna a cimentarsi con il Pinter di “VecchiTempi”, nell’edizione diretta da Roberto Andò. Fino al 12 dicembre, Orsini è al Teatro Eliseo di Roma, da cui poi partirà per portare la pièce in tutta Italia e riscuotere un successo – giustamente - annunciato.

Come è stato il suo primo contatto con il teatro di Pinter?
Ricordo la prima volta che vidi Old Times a Londra nel ‘71. La pièce era allora al debutto e la regia era di Peter Hall. Fui folgorato dal nitido e implacabile martellare delle parole. Scavavano nel mistero della vicenda e ne lasciavano intatta l’ambiguità. Ricordo Colin Blakeley, il primo interprete di Deeley, attore sublime. Portava in scena una presenza così priva di contorni definiti da sembrare, allora, un esempio perfetto di recitazione pinteriana.
Ricordo il fascino di quello spettacolo, che mi fece tenere tra le mani per un paio d’anni la commedia, senza decidermi a farla. Un po’ per deferenza verso l’allestimento che avevo visto, un po’ perché mi sentivo troppo giovane e forse inadeguato. Avevo bisogno di una spinta.
E la spinta arrivò…
Ricordo la sera in cui Visconti mi disse che Franco Eurignese, direttore dell’Argentina Teatro Stabile di Roma, gli aveva proposto di mettere in scena un lavoro di Pinter e che lui gli aveva detto di sì, e che se volevo leggerlo, il ruolo di Deeley poteva essere mio.
Ricordo di aver mentito e di aver risposto che non conoscevo la commedia, ma che l’idea mi rendeva felice. La scelta di Adriana Asti per il ruolo di Kate fu immediata. Alla scelta di Valentina Cortese per Anna arrivammo dopo una lunga serie di esclusioni.

Uno spettacolo importante per lei che lo aveva sognato tanto, ma anche per Visconti…
Sì, era infermo da due anni a causa di un ictus che lo aveva colpito dopo la lavorazione di Ludwig, e che questo sarebbe stato il suo ritorno al teatro dopo un lungo silenzio. La malattia si faceva sentire durante le prove. Per non stancare Visconti, le facevamo nel salone della sua nuova casa in Via Fleming a Roma, tra camerieri che servivano il the e telefonate rabbiose in cui lui tentava di difendere il suo Ludwig dalle pressioni dei produttori americani, che volevano imporre cinquanta minuti di tagli.
Poi, finalmente, il debutto all’Argentina…Sul palco, lo scenografo aveva realizzato una specie di ring, con gli spettatori sui quattro lati.
Recitando là sopra, gli occhi della gente ci avrebbero scrutati in modo impietoso, da tutte le angolazioni. Ricordo il gong che Visconti, un po’ per gioco un po’ sul serio, faceva risuonare durante le prove, per indicarci la lunghezza delle pause pinteriane – lui le chiamava così – e ricordo il pianista che accompagnava me e Valentina mentre provavamo le nostre vecchie canzoni. Gong e pianista erano destinati a sparire, ma per una decisione presa all’ultimo momento rimasero nello spettacolo, inspiegabilmente.

Quali altri ricordi ci può regalare?
Ricordo il piumino rosa che tenevo tra le mani e la nuvola di talco che si sollevava dal corpo nudo di Adriana quando mi avvicinavo a lei. Per affermarne il possesso di fronte a Valentina lo premevo con insistenza sul suo sesso, sulla peluria decolorata, bionda, volutamente in tono col colore della parrucca. Ricordo un’ora e mezzo di recitazione incalzante, di trasgressioni estreme, di trasalimenti, di immagini delicate e scolpite, come se balzassero da un dipinto di Balthus ai cui colori era peraltro ispirato l’arredamento.

Come fu l’atmosfera di quel debutto “battagliero”?
Esaltante, unica. Visconti si era sistemato in un palco del primo anello. Tutta la gente teneva gli occhi puntati lassù. Il vecchio leone si intravedeva nell’ombra. Dieci minuti prima dello spettacolo mi aveva fatto recapitare in camerino un incredibile vaso di gardenie e una lettera, che conservo ancora, nella quale mi copriva di complimenti, ma soprattutto di responsabilità.
C’erano tutti a quella prima italiana, tutto il teatro, tutto il cinema europeo, tutti gli amici, innumerevoli, indimenticabili. Una serata così, non so se ci sia più stata. Alla fine erano tutti in piedi. Gli occhi e gli applausi erano rivolti a lui. E lui ebbe la forza di appoggiarsi sul bastone e di alzarsi. Un delirio. Mai vista tanta commozione.

E l’ultima, invece?
Alla trentacinquesima, improvvisamente e inaspettatamente, Pinter arrivò da Londra. Dalla sala, alla fine della recita, si sentì un fischio. Era il suo. Il giorno dopo annunciò in una conferenza stampa che avrebbe tolto i diritti di rappresentazione poiché non era stata adottata la traduzione da lui indicata. Era un cavillo legale, certamente un pretesto, però legittimo. Due tra le personalità più forti del teatro degli ultimi cinquant’anni erano una di fronte all’altra. Visconti aveva tradito i canoni usuali delle rappresentazioni delle commedie di Pinter - questo è certo - e Pinter, ferito nell’orgoglio, non ha voluto perdonarglielo.

Dopo Trent’anni, Umberto Orsini interpreta nuovamente quel ruolo, diretto, però, da un altro regista, e si mette nuovamente in discussione…
Avrei potuto vivere di ricordi e dire “no, grazie.” Ma ho voluto essere di nuovo Deeley. Per varie ragioni. Perché Old Times è uno dei testi più difficili di Pinter. Perché quando l’ho fatto ero troppo giovane e oggi sono forse troppo vecchio, ma so che la cosa può risultare affascinante. E perché le mie due nuove compagne di lavoro, Greta e Valentina, con la loro freschezza mi portano indietro nel tempo e questa vicenda può essere vista come un lungo sogno: un sogno in cui si mescolano tutti e tutto: me come ero allora e come sono adesso, e la Cortese, e la Asti, e Pinter, e Andò, e Visconti e poi ancora Valentina e Greta. Come se tutto non fosse mai cominciato, e tutto non fosse mai arrivato alla fine. Come in Vecchi Tempi insomma.

 

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