di Lorenzo Soria
L'insopportabile Allen. La divina Streep. I produttori squali. Il grande regista racconta trucchi e segreti della sua arte colloquio con Robert Altman
Quando era bambino, è andato a scuola dai gesuiti. Quando era teenager, scappava spesso di casa la notte per intrufolarsi nei locali della natia Kansas City, che avendo sfidato le leggi sul proibizionismo era diventata un magnete per gangster, prostitute, giocatori d'azzardo, musicisti jazz. Poi arrivò la guerra e Robert Altman divenne un pilota al comando di B-24 nel Borneo. "Un periodo molto eccitante", ricorda. Come accade spesso con gli uomini che lasciano un segno, ben poco nei primi anni di vita dell'autore di 'Nashville' suggerisce che si sarebbe fatto un nome. Ma Altman ha saputo rompere il tradizionale schema hollywoodiano di protagonista-antagonista per narrare invece diverse storie parallele con più personaggi che si sovrappongono. E così, armato delle sue multiple cineprese e del suo senso dell'assurdo, si è trasformato in uno dei più acuti cantastorie del suo paese, raccontando con naturalezza e irriverenza un'America fatta di sognatori e di sogni infranti, di truffatori e di visionari, di eccessi e di bizzarrie.

Dalle missioni aeree nel Pacifico, Altman passò per caso al cinema industriale, poi alla televisione, mettendosi a fare cose tipo 'Bonanza' e finendo per litigare con Hitchcock che lo aveva chiamato per lavorare nella serie 'Alfred Hitchcock presents'. "A parte il fatto che non mi piacevano i suoi film, perché sono troppo curati", ricorda, "un giorno ho detto che una sceneggiatura era brutta e che non intendevo dirigerla. Mi hanno risposto: 'Grazie mister Altman' e non mi hanno più chiamato". Già allora Altman era un ribelle, uno spirito indipendente. Agli occhi degli studios, un rompiballe, tanto che quando fece vedere 'M.A.S.H' per la prima volta, la Fox ebbe la tentazione di cestinarlo. "È il primo film americano a mettere apertamente in ridicolo Dio", scrisse scandalizzato il 'New York Times'. Ma fu un immediato successo. E negli anni a venire Altman realizzò una serie di film che sono entrati nella storia del cinema: 'I compari', 'Il lungo addio', 'California Poker' e quello che per molti resta il suo capolavoro, 'Nashville'.

Anche lui ha avuto le sue cadute, da 'Buffalo Bill e gli indiani' a 'Popeye' o 'Dr. T e le donne'. Ma ha diretto 'Tre donne', 'I protagonisti', 'Shortcuts' e, con 'Gosford Park', ha saputo pure avventurarsi con successo tra i vezzi e i vizi dell'aristocrazia britannica. Pochi mesi fa, arrivato a 81 anni e dopo cinque nominations come 'Best Director', Altman ha avuto finalmente il riconoscimento di un Oscar, quello alla carriera. Ma quando è salito sul palco della Academy per ritirare la statuetta, ha stupito il mondo comunicando che dieci anni fa si è fatto trapiantare il cuore di una trentenne e che questo gli consentirà di andare avanti ancora 40 anni. Avrà il passo fragile e organi che non sono i suoi, ma Altman non ha insomma alcuna intenzione di mettersi a riposo. Sta ancora promuovendo 'Radio America', e intanto si prepara a iniziare le riprese di 'Hands on a Hard Body', un film su un test di resistenza che avrà come protagonisti Billy Bob Thornton e Hilary Swank. In attesa di tornare dietro le sue cineprese, lo abbiamo incontrato a Los Angeles, una città dove, ci tiene a precisare, ha una casa, ma non la sua residenza fissa.

Mister Altman, come fa a rinnovarsi? A offrire sempre un senso di freschezza?
"Cerco di andare in territori che non conosco e che mi fanno anche un po' paura, che siano la servitù britannica, le compagnie di ballo o il mondo della radio. E cerco di non ripetermi. Quando qualcosa funziona, la tentazione di ripetersi è forte, ma così finisci per metterti nei guai. Bisogna cercare sempre di rinnovarsi".

Il suo effetto speciale sono le storie e i personaggi che si sovrappongono l'uno con l'altro.
"I miei film in effetti non sono molto lineari, mi sento a mio agio con i pezzi di insieme. Non so bene perché, la pigrizia, forse. Quando hai tre o quattro cineprese, non devi rifare tutto per i primi piani, risistemare le luci e ricominciare daccapo. Se una scena non funziona, non mi preoccupo più di tanto, perché posso sempre tagliare un'altra scena. Tutto questo aiuta a dare un senso di realismo, è come se non fossi io a controllare un evento che sto solo registrando. Ecco, questo è l'effetto che cerco".
E gli attori? Tutti vogliono lavorare con lei.
"Cerco di lasciare ai miei attori la massima libertà. Loro hanno un ruolo chiave, sono quelli che devono dare una nuova dimensione alla storia. Il mio compito è quello di arrivare la mattina, accendere le luci, dire 'okay, si parte' e poi di spegnerle la sera. Se poi hai una come Meryl Streep è quasi irritante. È non solo incredibilmente brava, ma è anche estremamente piacevole. Con Meryl sul set ti senti un po' inutile".

Andiamo un po' indietro negli anni, al 1970 e a 'M.A.S.H'. Si aspettava quella accoglienza?
"In quei giorni c'erano altri tre film di guerra in circolazione: 'Patton', 'Tora Tora' e un altro che adesso non ricordo. Alla Fox erano interessati solo a quelli. Un giorno ho ricevuto per errore un promemoria mandato a qualcuno nello studio in cui dicevano non preoccuparti per quel film, lo mandiamo dirittamente nei drive-in. Nessuno gli dava importanza e se poi non lo hanno cestinato è solo grazie a una partita di football e a due ragazze francesi".

Si spieghi meglio.
"Dick Zanuck, all'epoca il numero uno della Fox, decise di andare a un'anteprima del film a San Francisco solo perché c'era una partita di football cui teneva molto. Anche di fronte a un pubblico entusiasta di 3.800 persone rimase freddo, voleva che tagliassi tutte le operazioni e altre parti. Ma con Zanuck c'erano queste due ragazze francesi, molto belle e molto giovani. Gli dissero che non doveva tagliare niente, che il film era 'parfait'. E così le due ragazze mi hanno salvato il film".

Una scena che potrebbe ripetersi 35 anni dopo. Ma in che direzione sta andando il cinema?
"Sarà banale, ma il mondo del cinema è cambiato moltissimo. I registi che mi hanno formato, i Fellini, i Kurosawa, i Bergman, sono ormai per i libri di storia perché non rientrano più in questo modello di cinema concepito per i quattordicenni. Bisognerebbe togliere i soldi ai teenagers, proibire loro di andare al cinema. Gli studios sono in mano a dei businessmen, dei banchieri che mirano al grande botto, possibilmente al primo weekend di programmazione. Le cose stanno cambiando. E siccome non mi metto a cercare di indovinare dove andremo, continuo a lavorare su ciò che mi interessa. Non posso cambiare. E comunque non ne ho il tempo".

In realtà ha annunciato che ha davanti altri 40 anni di lavoro. Quali piani ha in mente per il prossimo futuro?
"A breve, il mio piano è di alzarmi domani mattina. A lungo, il mio piano è di alzarmi domani mattina. Poi affronterò il giorno, a seconda di quello che accade".

Intanto continua a girare film...
"Sto veramente lavorando a due o tre progetti e in autunno inizierò a girare un film chiamato 'Hands on A Hard Body'. Una storia tipo 'Non si uccidono così anche i cavalli?', ma ambientata in una concessionaria di pick up dove chi riesce a stare più a lungo con le mani appoggiate su un veicolo finisce per vincerlo".

Lei si è fatto la fama di regista difficile, si narra anche di scazzottate sul set.
"Non è vero, in tutte queste storie c'è un pizzico di verità e un sacco di esagerazioni. Una volta ho buttato un montatore in piscina, ma dobbiamo andare indietro ai tempi di 'California Poker'".

Deve ammettere che di Robert Altman non ce ne sono molti. Chi potrà prendere in mano la sua eredità?
"Il cinema va a cicli e adesso, spero, siamo alla fine di un ciclo. Ci sono molti giovani bravi. Per me il migliore è Paul Thomas Anderson, che ha accettato di starmi a fianco durante tutta la lavorazione di 'Radio Days'".

Ci tiene a come verrà giudicato nella storia del cinema? O è come Woody Allen, al quale non gliene importa niente?
"A me non mi importa molto di quello che dice Woody Allen. Ha molte ragioni per essere pessimista, io per essere ottimista. Non posso certo decidere io il come verrò ricordato, sta a voi farlo. E quando leggo delle cose belle sono felice".

C'è forse qualcosa di personale con Allen?
"Penso che sia un rompiscatole. Come film maker è in troppi dei suoi film. Io non potrei mai farlo. Per fortuna, il mondo è grande, c'è posto per tutti e non dobbiamo stare nello stesso posto assieme".
Lei ha 81 anni: la metà li ha vissuti nel cinema. Ha dei rimpianti?
"Purtroppo vedo la luce alla fine del tunnel, quando non sarò più in grado di lavorare. Questo mi pesa, ma morirò con i miei stivali ai piedi perché se non lavoro mi annoio tantissimo".

Nella sua formidabile carriera ci sono dei film che avrebbe voluto fare e che invece non ha fatto?
"Ce ne sono tanti, ma la mia delusione più grande è stata quando Dino De Laurentiis mi ha licenziato da 'Ragtime'. Avevo fatto per lui 'Buffalo Bill e gli indiani' che era andato male sul piano commerciale. Dopo averci lavorato per un anno, mi ha cacciato e mi dispiace ancora non aver fatto quel film".

Che accadde con De Laurentiis? Lo buttò in piscina?
"No, quello è successo soltanto una volta... Con Dino ci siamo rivisti e abbracciati con la solita amicizia e cordialità".