di Alessandro Gilioli
Le sconfitte. Lo scandalo. La tentazione di lasciare. E finalmente, il primato. Il patron nerazzurro racconta Un anno che ha cambiato tutto. Anche il suo carattere. Colloquio con Massimo Moratti
Massimo Moratti
Non era mai accaduto, da quando si è comprato l'Inter, che Massimo Moratti festeggiasse il Natale così: primo in classifica, lo scudetto sul petto e i rivali di sempre - Milan e Juventus - lontanissimi o altrove. Per non pensarci su troppo, e non rischiare di gasarsi guardando la classifica, il patron nerazzurro ha deciso di passare le vacanze di Natale lontano, a New York, a vedere la figlia che recita a Broadway. Lasciando nella pioggia grigia di Milano i suoi sogni ancora intatti.

Come va Moratti? Un po' meglio degli altri anni?
"È strano. Ho sempre pensato che in una situazione così avrei fatto le capriole. Invece, niente".

Perché?
"Forse i troppi schiaffi presi in passato. Forse la prudenza, che a volte sconfina nella scaramanzia. Sta di fatto che qui siamo tutti con i piedi strapiantati per terra. Io per primo".

Almeno non si sentirà più appiccicata addosso quell'etichetta di eterno sconfitto che l'ha inseguita per anni.
"Ma io sapevo benissimo che non c'era niente di vero in quell'immagine creata dai media. Sapevo che se l'Inter non vinceva mai le ragioni andavano cercate altrove. In quella cappa di impossibilità che poi è emersa, ma a cui tutti sembravano indifferenti".

Parla di Moggi, di Calciopoli?
"A un certo punto mi ero rassegnato, a quella cappa. Capivo che, ad andare bene, con quel sistema lì saremmo sempre arrivati secondi. E allora ho pensato seriamente di mollare".

Quando?
"Attorno ad aprile di quest'anno. Non ce la facevo piu a vedere quello che succedeva nell'indifferenza generale. Non speravo che sarebbe venuta fuori la verità, almeno in tempi brevi. Ero davvero stufo".

E allora?
"Allora ho chiamato un paio di banche e le ho incaricate di vendere l'Inter. Anche la mia famiglia era d'accordo, non volevano più vedermi così stressato".

Dopodiché?
Un banchetto milionario che rischia di terminare il prossimo 30 giugno (a meno che il governo Berlusconi non rimetta mano alla questione) grazie a una norma fatta inserire nell'ultima Finanziaria dall'ex ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. Per il leader dell'Italia dei Valori quello degli arbitrati è un autentico scandalo nazionale per la sistematicità con la quale soccombono le amministrazioni pubbliche e per i livelli dei compensi degli arbitri. Un andazzo documentato al dettaglio da Luigi Giampaolino, presidente dell'Autorità, che in una lettera dello scorso autunno ha fornito i dati sul fenomeno. Quelle cifre rivelano che su 279 arbitrati solo in 15 casi (il 5 per cento) le amministrazioni pubbliche sono uscite vittoriose. Per il resto, solo sconfitte e condanne che per le casse dello Stato si sono trasformate in una autentica débâcle economica: pagamento di danni per oltre 700 milioni di euro e spese processuali per altri 60 milioni, di cui ben 59 per i compensi dei 'giudici'. È per questi motivi che Di Pietro ha messo mano al dossier stoppando gli arbitrati e imponendo il ricorso ai normali tribunali per tutte le controversie che in futuro vedranno protagoniste le amministrazioni pubbliche.

Ma chi sono gli arbitri che si sono divisi le più ricche parcelle? Il documento di cui 'L'espresso' ha preso visione riporta tutti gli arbitrati svolti presso la Camera arbitrale (nella quale, dal 2005, c'è l'obbligo di deposito di tutti i lodi, cioè le sentenze) dell'Authority dei lavori pubblici. Sia quelli cosiddetti 'liberi' (le parti gestiscono senza alcun vincolo le controversie, dalla composizione dei collegi ai relativi compensi) che quelli 'amministrati', cioè le liti in cui la Camera arbitrale nomina il presidente e fissa i tetti delle parcelle. I dati più interessanti, sia per i compensi (solitamente dall'1 al 3 per cento del valore della controversia) che per i professionisti gettonati nei collegi, sono quelli degli arbitrati liberi. A parte i nomi altisonanti come quello
"Un paragone che non sta in piedi. Noi non abbiamo mai cercato il potere politico, infatti non ce l'avevamo prima e non ce l'abbiamo adesso. Volevamo e vogliamo solo competere lealmente. Prima non si poteva, oggi forse sì".
Perché ha fatto pedinare Bobo Vieri?
"Quando è arrivato all'Inter, avevamo dei dubbi sulla sua disciplina verso la società e i suoi dirigenti. Allora abbiamo commissionato un'indagine per capire quello che faceva, senza che venisse fuori niente di importante. Infatti poi Vieri è rimasto all'Inter altri cinque anni. E io di quella storia mi ero del tutto dimenticato: l'hanno tirata fuori al momento opportuno per far credere che eravamo uguali agli altri".

Quanto l'ha pagata, quella indagine?
"Sui 40 mila euro, mi pare. Un po' troppo, in effetti: il lavoro era scarsino".

E l'arbitro Massimo De Santis, perché è stato "dossierato"?
"Dell'esistenza di quel dossier ho saputo solo quando Enrico Mentana ne ha parlato in tv. E devo dire che il nome del fascicolo, "Operazioni ladroni", beh, l'ho trovato geniale. Ma noi non c'entravamo niente. L'hanno fatto altri, a nostra insaputa".

E il passaporto falso di Recoba?
"Il sottobosco del calcio è pieno di gente come i tizi che hanno fabbricato quel falso. Qualcuno, a Roma, ha organizzato tutta quella roba. Una cosa molto sgradevole, molto antipatica. Lui ha pagato con una lunga squalifica. Fine".

Può mettere la mano sul fuoco che l'Inter non ha mai brigato con gli arbitri?
"Certo. La mano sul fuoco".

E che non avete mai dopato nessuno?
"Due mani sul fuoco".

Adesso che - forse - state iniziando a vincere, pare che siate antipatici a molti. "Il Foglio" ha scritto che siete diventati come la Juve gli anni scorsi.
"Stiamo antipatici, forse, a milanisti e juventini: è giusto ed è normale che sia così. Ma siamo sempre gli stessi di prima, con la nostra filosofia. E credo che le nostre inziative di tipo sociale e culturale continuino a caratterizzarci. E a piacere anche ai non interisti".

Il gemellaggio con Emergency, l'amicizia con il subcomandante Marcos, i campus nel Terzo mondo e così via?
"Il nostro impegno con l'Inter cerca di andare oltre la partita alla domenica".

Lei è di sinistra?
"Mi perdoni, ma proprio non le posso dire per chi voto. L'Inter non appartiene a una sola parte politica e non voglio che sia caratterizzata come società di destra o di sinistra".

Molti ultras però sono di estrema destra. Non le stanno sulle scatole i saluti fascisti tra le bandiere nerazzurre?
"Di certo non mi fanno piacere. Ma l'Inter non è rappresentata solo da quella curva. Ci sono tifosi, anche di alto livello, che stanno dall'altra parte. Anzi: non escluderei che una parte della curva esibisca quei simboli di destra per una strana reazione a una certa immagine di sinistra di diversi tifosi eccellenti dell'Inter".

Un gruppo di interisti molto "rossi" le ha mandato la tessera numero uno del loro club, gli "Interisti-Leninisti"...
"Sì, sono dei simpatici ragazzi di Ravenna. Ho chiamato per ringraziarli, ma non hanno creduto che fossi davvero io, pensavano a uno scherzo e mi hanno chiuso il telefono in faccia".

Sua cognata è anche il suo sindaco. Le piace?
"È solo all'inizio, ma mi sembra che stia cominciando a far cambiare passo alla città".

Il ministro Melandri dice che il calcio ha bisogno di profonde riforme e che il governo le porterà avanti.
"Giusto, ma le riforme devono essere fatte con il consenso di chi opera nel calcio, società in testa. E la politica non deve intromettersi più di tanto nello sport".

Ma la questione dei diritti tv è sul tavolo. Melandri li vuole collettivi, con una cifra da versare a tutta la Lega. Lei - in compagnia di Milan e Juventus - li vuole invece soggettivi, squadra per squadra, per incassare di più.
"I grandi club trascinano tutto il circo e anche il ministro lo sa. Se hanno problemi le cinque-sei squadre più importanti, è un dramma anche per le altre. Però penso che alla fine riusciremo a trovare una mediazione: un sistema che dia il giusto ai club che attirano più tifosi, magari passando attraverso diritti collettivi attenuati da un sistema di compensazione".

Intanto gli stadi sono sempre più vuoti. Colpa della televisione?
"Non credo. Anzi: le dirette fanno sì che tutta la famiglia si interessi un po' di più alla partita, quindi al campionato. Semmai è colpa degli scandali: i tifosi meno accaniti si sono schifati del pallone e se ne sono allontanati. Ci vuole ancora un po' di tempo perché la ferita si rimargini. E poi è colpa degli stadi italiani, così poco ospitali".

 

 Pensa anche lei al mitico modello inglese, con gli stadi che diventano simili a centri commerciali e di entertainment?
"Chi segue la Champions League all'estero rimane stupito dalle differenze rispetto ai nostri impianti. Lì è normale avere bar, negozi, ristoranti, poltrone comode, locali riscaldati con schermi al plasma dappertutto. Da noi se ti scappa la pipì a metà partita è un problema perfino in tribuna d'onore".

E, onestamente, anche a San Siro è meglio andare senza bisogni corporali.
"San Siro è bellissimo, pieno di storia e di tradizione, ma è oggettivamente obsoleto. Non è un segreto che stiamo pensando a un nuovo stadio".



Dove e quando?
"Sul dove stiamo analizzando due o tre ipotesi diverse. Non voglio cattedrali nel deserto: bisogna trovare un posto ben collegato in auto e con i mezzi pubblici. Sul quando, direi che entro sei mesi prenderemo la decisione ed entro quattro anni lo stadio dovrebbe essere pronto. Un impianto da 40-50 mila posti, moderno, comodo, pieno di ristoranti e di negozi".

Ma ora il primo obiettivo è vincere uno scudetto vero. Quello dell'anno scorso, come dire, era un po' farlocco, un po' di cartone...
"Ogni tanto mi chiedo ancora se non avrei fatto meglio meglio a rifiutarlo. Ma alla fine penso di aver fatto bene ad accettarlo e a metterlo sulle maglie. Mica per altro: è che se avessimo detto di no, avremmo implicitamente dato ragione a quelli del "sono tutti uguali, sono tutti ladri". Invece bisognava che da qualche parte risultasse ufficialmente, storicamente, che società come l'Inter e la Roma - ad esempio - erano pulite. La classifica finale dello scorso campionato rispecchia questa verità".

Ma lei l'ha festeggiato, quello scudetto lì?
"Quando ho saputo della decisione ero solo in casa. Il primo impulso è stato andare in garage, prendere in la macchina e girare come un pazzo per la città suonando il clacson. Ma poi non l'ho potuto fare: sa, mi avrebbero riconosciuto. Allora ho stappato una bottiglia di champagne con l'unica persona che c'era in casa, una collaboratrice domestica. Abbiamo brindato insieme, da soli, io e lei".

Ma ce la farete, finalmente, quest'anno?
"La strada è lunga e difficile, ma credo che abbiamo il 65 per cento delle possibilità di farcela".

Nel caso, che cosa fa?
"Magari stappo un'altra bottiglia con la stessa colf. Speriamo che diventi una tradizione...".

E l'Inter non la vende più, giusto?
"Vedremo. Non voglio mai essere di impiccio, di troppo. Non voglio incollarmi a questa poltrona, se penso che altri possano far meglio".



Vuol dire che non vedremo la terza generazione di Moratti alla presidenza?
"Spero proprio di no. Per i miei figli, intendo dire. L'Inter è stata una sofferenza terribile per mio padre, nei suoi primi sette-otto anni. E per me, nei primi dieci-undici. Non tanto per le vittorie mancate, quanto per gli attacchi che ho dovuto subire. E che a poco a poco mi hanno fatto diventare anche un po' meno buono, un po' meno tollerante. Ho dovuto forzare il mio carattere. Lei lo augurerebbe ai suoi figli?".

 

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