di Alessandro Politi
"Molta dell'attenzione dei media si è concentrata sull'inaccettabilità della risposta iraniana perché non comprendeva subito la sospensione dell'arricchimento dell'uranio. Però nessuno ci credeva e quel che ha risposto l'Iran è il massimo che tutti si aspettavano...". Questo commento di un anonimo diplomatico dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica aiuta a capire la posta in gioco, sgomberando il campo dalle chiacchiere e riconoscendo implicitamente quanto il rapporto Nomos & Khaos 2005 di Nomisma in aprile e quello di Chatam House 'Iran: Its neighbours and regional crises' in agosto, hanno individuato come tendenza: l'Iran torna ad essere il baricentro del Golfo Persico. L'Iran è più forte dei petrogoverni e dei capi centroasiatici o caucasici che lo circondano perché dispone di: un forte capitale demografico ad alto tasso d'istruzione, una forte identità nazionale, un capitale tecnoscientifico di rilievo, importanti riserve petrolifere, una classe politica discretamente coesa e di forze armate non sottovalutabili.

Il Blitzkrieg statunitense contro l'Iraq ha fatto crollare l'unico elemento di contrappeso. L'Iraq è oggi, molto più del Libano, un paese in cui l'influenza di Teheran è forte. Dal 1991 l'idea portante della politica di Washington nell'area era il cosiddetto 'double containment' contro Iraq ed Iran, ed è stata fatalmente minata non solo dalle operazioni militari, ma anche dall'idea d'esportazione di democrazia. In un'area dove le elezioni hanno spesso risultati prevedibili, l'Iran ha brillato per robustezza e credibilità delle sue consultazioni elettorali. Ora è necessario fare i conti e farli con l'oste, senza pregiudizi pseudoideologici per evitare amare sorprese. Mahmud Ahmadinejad ha una composita base di potere nei conservatori restauratori del primato della politica rispetto a quello dei petrodollari, tra i quali spiccano i Pasdaran (ieri solo burocraticamente ed economicamente rilevanti), le classi più povere ed elementi riformatori del clero iraniano. L'obiettivo è come minimo la neutralizzazione dell'insieme delle strutture clericali di potere parallelo che soffocano l'azione dei poteri eletti direttamente dal popolo. A questo serve la proiezione sull'orizzonte del 12 imam, secondo l'associazione Hojatiyye di cui Ahmadinejad è membro: mettere fuori gioco il governo degli ayatollah e la loro classe di petroburocrati. Paradossalmente un obiettivo laico in una semidemocrazia semiteocratica, ma naturalmente vestito - come la Riforma di Lutero - di panni religiosi. A questo scopo tendono concretamente tanto le dichiarazioni apocalittiche su Israele quanto la ben più seria partita in Libano: creare nel paese una sindrome patriottica per isolare gli oppositori, prendere la pienezza del potere e condurre l'Iran alla supremazia regionale. Tuttavia le radici di questo potere non sono ancora ben salde e l'Iran ha bisogno anche della benedizione Usa per tornare al ruolo che aveva ai tempi dello Shah. È in questa sottile, orientale contraddizione che si è mosso anche Kofi Annan con il suo viaggio a Teheran e dovrà avere un ruolo sempre più attivo la diplomazia italiana. L'Iran ha davvero bisogno di una garanzia positiva di sicurezza da parte degli Usa e Bush ha bisogno di una vittoria diplomatica per non restare appeso nel Golfo Persico. Sempre che non voglia lasciare il problema al successore o peggio rischiare un altro azzardo militare.