di Massimo Riva
La fusione Intesa-Sanpaolo ha avuto un consenso politico plebiscitario. Finalmente il sistema bancario domestico può competere nel mercato creditizio internazionale. L'operazione però non appare politicamente asettica
Romano Prodi
La fusione Intesa-Sanpaolo ha avuto un consenso politico che può ben dirsi plebiscitario. È piaciuta a Prodi e a Berlusconi, a Padoa-Schioppa e a Tremonti, e così un po' anche a tutti gli altri giù per li rami. Nessuno, in ogni caso, ha detto che no, non si sarebbe dovuta fare. Al fondo di questa unanimità c'è un dato oggettivo: finalmente, dopo l'eccezione di Unicredit, anche nel resto del sistema bancario domestico ci si sta attrezzando per raggiungere dimensioni competitive nel vasto mercato creditizio europeo e internazionale. Il sì, più o meno entusiasta, di governo e partiti era quindi obbligato.

È altrettanto un fatto, però, che questa operazione non appare anche politicamente asettica e neutrale. Per carità, sarà pur vero che il mondo politico - come ha tenuto a dire il presidente di Sanpaolo, Enrico Salza - è stato informato a cose fatte. Ciò non toglie che i gruppi dirigenti di entrambe le banche siano composti da uomini di cui sono espliciti le inclinazioni e i buoni, talora ottimi, rapporti con l'establishment dell'attuale maggioranza di centrosinistra. Dunque, se Giovanni Bazoli (il presidente di Intesa) ed Enrico Salza si sono potuti permettere il lusso di non pagare un pedaggio politico preventivo è anche perché, in cuor loro, sapevano non solo di fare una cosa giusta, ma anche di poter contare su una sicura benevolenza governativa nei loro confronti.

Sul piano dei rapporti fra potere politico ed economico, insomma, la nascita della maxibanca Intesa-Sanpaolo significa un netto consolidamento dell'asse più favorevole al centrosinistra e a Romano Prodi, in particolare. Amara ma indiscutibile novità per il fronte berlusconiano e per il Cavaliere in prima persona, alla luce dei suoi rilevanti interessi in campo bancario e assicurativo.

Del resto, non ci vogliono doti divinatorie per immaginare che, dopo questa scossa, poco potrà restare come prima nella mappa di quella che finora era giustamente chiamata la foresta pietrificata del credito nazionale.

Anzi, l'onda d'urto avrà riflessi importanti sulle prossime tappe del riassetto dell'intero sistema finanziario: dagli appetiti attorno al colosso Generali fino forse agli equilibri dentro Mediobanca. Per non dire della soluzione dei problemi di qualche gruppo appesantito dai debiti come la catena Pirelli-Telecom. Tutti terreni che incrociano, in vario modo, i progetti futuri di Fininvest e le ambizioni del Berlusconi finanziere.

Chi per primo dovrà comunque darsi una mossa sono quei gruppi bancari che insistono nel difendere il loro isolamento per timore di perdere il potere da parte dei manager (Capitalia) ovvero il controllo da parte degli azionisti (Monte dei Paschi).

Certo, le due situazioni sono assai diverse: a Roma c'e un assetto azionario malfermo che espone a qualche possibile assalto, mentre a Siena si gestisce con padronanza quasi feudale. In ogni caso, agli uni come agli altri dovrebbe esser chiaro che, in un mercato dominato ora da due giganti quali Unicredit e Intesa-Sanpaolo, non ci sarà più posto per arroccamenti solitari se non in chiave di banca nazionale. Che oggi significa regionale.