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di Marco
Molle
Ariel
e la costruzione di senso dell’esistere? La ricerca di una base,
di un principio fondante, simboleggiato dalla figura paterna, che dà
slancio per lanciarsi nel futuro è il solito pretesto tardo - adolescenziale
per sottrarsi alle responsabilità della vita, quando abbiamo il
lusso di avere vicino qualcuno, come una madre, che provvede alla nostra
sopravvivenza materiale? Risponda soltanto chi è cresciuto forato
da una lacuna abissale come quella del protagonista di “El abrazo
partido” (titolo originale), quarta pellicola di Daniel Burnam,
che ne è anche sceneggiatore insieme a Marcelo Birmajer, vincitrice
dell’Orso d’argento al festival di Berlino e imperniata sul
rapporto padre latitante – figlio, proprio come la precedente “Aspettando
il Messia” dello stesso regista argentino. Ariel, interpretato dall’ottimo
Daniel Hendler, premiato come miglior attore a Berlino, vive a Buenos
Aires dove lavora aiutando la madre, proprietaria di un negozio di biancheria
intima femminile situato all’interno di una galleria commerciale
nel quartiere di Once.
Il padre ha abbandonato la famiglia nel giorno della sua circoncisione
per combattere nella guerra dello Yom Kippur a fianco dei suoi fratelli
di fede ebraica, per una missione eroica da cui non ha fatto mai più
ritorno, limitandosi a “sopravvivere” in qualche freddo e
convenevole telegramma, in uno dei quali invita il figlio a raggiungerlo
in terra santa. Ariel, amputato dalla nascita in un affetto di riferimento,
è sempre più deciso a recidere del tutto i legami sentimentali
che lo legano al fratello maggiore Joseph e alla madre Sonia, raggiungendo
quella Polonia che anni prima la sua famiglia fu costretta ad abbandonare
a causa della persecuzione nazista; ci vuole del tempo però, da
ammazzare con sapienza per vederlo scivolare rapido, e tempo ce n’è,
purtroppo, anche per riflettere.
I titolari o gestori delle attività del centro commerciale hanno
diverse nazionalità ed attitudini caratteriali ma uno stesso assillo:
la forte crisi economica che investe l’intero paese. Da questo crogiuolo
di razze e identità, che si propone metaforicamente di rappresentare
la policroma e claudicante umanità di oggi,
il ragazzo esce sicuramente migliorato nella sua disponibilità
mentale, ma ancor più rinsaldato nell’idea di una realizzazione
personale che si compie anche rintracciando una continuità tra
il passato ed il futuro. Così il ragazzo vive i suoi trent’anni,
divertito da una fauna variegata e bizzarra che popola la galleria, allietato
dalle grazie prorompenti di un’amante che lenisce appena la delusione
per una “ex” rimasta incinta di un estraneo, annoiato da un
mestiere cui la madre, viceversa, non antepone nemmeno la grande passione
per il ballo; questo finché il cerchio si chiude portando con se
il ritorno del padre e una luce nuova sui motivi che portarono alla fuga
l’ormai anziano genitore.…si chiude come un abbraccio tanto
agognato.
Le musiche di Andrea Guerra sono puntuali e, come in altri film, quasi
impalpabili, la camera a spalla insegue con coerente frenesia le esplosioni
emotive del protagonista, conferendo al narrato maggiore credibilità,
mentre i dialoghi e i monologhi invadono, ironici o malinconici, la scena.
Apprezzabile l’omaggio a De Sica e al suo “I girasoli”,
con due giovani M. Mastroianni e S. Loren.
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