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Regia: Neil Jordan
Cast: Jodie Foster, Terrence Howard, Naveen Andrews, Jane Adams, Brian Delate, Mary Steenburgen
Genere: Thriller/Drammatico
Distribuzione: Warner Bros
Giudizio: * * * *
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Erica Bain è una conduttrice radiofonica che vive a New York. Una sera viene aggredita da un gruppo di teppisti assieme al suo futuro marito, David, all’interno di un parco pubblico. Quest’ultimo resterà ucciso. Erika, invece, nei giorni a seguire, inizierà ad osservare quella stessa metropoli, che fino a poche settimane prima era oggetto della sua contemplazione, con gli occhi di una donna spaventata e iraconda, allo stesso tempo. E sarà proprio la collera che le permetterà di aprire una porta nel suo animo ,dove si nasconde quel “buio” che fino ad allora aveva ignorato.
Neil Jordan fa ritorno sugli schermi con un film crudo, violento, durissimo per quanto concerne il tema che lo attraversa ma allo stesso tempo, intenso e poetico. Il regista , avvalendosi del suo inopinabile gran gusto, per quanto riguarda la scelta dei punti macchina, costruzione dell’immagine e, ovviamente, inquadrature( uno stile già apprezzato durante la visione di piccoli gioielli come l’horror “Intervista col vampiro”), traspone sullo schermo la sceneggiatura di un trittico di autori, formato da Cynthia Mort, Bruce Taylor, Roderick Taylor, che vede come protagonista una conduttrice radiofonica di nome Erica Bain, interpretata da una eccellente Jodie Foster. La vita tranquilla di Erika viene sconvolta da un tragico evento che la trasforma in una delle tante vittime della violenza insensata che si annida nelle grandi metropoli(in questo caso New York) e che diviene più efferata al calare del sole. I teppisti che aggrediscono Erika ed il suo fidanzato David, appaiono come un gruppo di “demoni” che attendono pazienti nelle tenebre, nella speranza di lacerare un’anima pura. Il tragico evento ridurrà in frantumi il coronamento del suo sogno d’amore, che avrebbe raggiunto l’apice, grazie al tanto agognato matrimonio con David. Così, l’Erika che lo spettatore ha avuto modo di conoscere all’inizio del primo atto, viene sostituita da un’ Erika fredda, intimorita, malinconica, a tratti apatica ma, soprattutto,adirata. Un insieme di emozioni che Jodie Foster è in grado di interpretare in maniera sublime; non certo attraverso riluttanti sbalzi di umore o, peggio,con momenti di isteria macchiettistica(come avviene in pellicole come “L’ultimo bacio”); bensì, tramite i silenzi, i momenti di riflessione amara che si concede la protagonista, all’interno del suo appartamento, che ora sembra divenuto l’unico rifugio, l’unico luogo in cui si sente protetta; il tutto supportato da un sottofondo musicale struggente, che arriva dritto al cuore dello spettatore, in particolare nella sequenza della già citata aggressione, durante la quale gli archi coprono le urla e gli insulti della banda di periferia che massacra a colpi di spranga il povero David.
E questo medesimo agglomerato di emozioni, Jodie Foster è in grado, inoltre, di esprimerlo attraverso gli occhi, incastonati in un viso smagrito, il cui fondo tinta non riesce a sopprimere quelle piaghe di sofferenza che si diramano sul volto del personaggio da lei interpretato, sintomo di un chiaro grido di collera unito a disperazione, che si manifesta attraverso la “metamorfosi” che subisce la stessa Erika: da vittima, diviene “carnefice”. Infatti, ricalcando personaggi del calibro di Charles Bronson o del fantomatico protagonista del cult-movie “Il corvo”, Erika , al calare del crepuscolo, si libera degli abiti di donna comune, per indossare le vesti del “giustiziere” solitario, che si aggira per le squallide strade della periferia, a caccia di quegli stessi demoni che le hanno privato la sua anima della “luce”, donandole in cambio, “il buio”. Ma il personaggio di Erika potrebbe essere riletto in una duplice chiave simbolica. Infatti, da un lato, rappresenta tutti coloro che, nella loro vita, sono rimaste vittime non solo di una violenza ma di uno stato che non ha garantito loro una protezione adeguata e , nella maggior parte dei casi, una mancato perseguimento di giustizia, teso ad assicurare la cattura e la punizione dei malviventi. Da un lato, Erika rappresenta il volto turbato e inquieto dell’America odierna, la quale, dopo l’undici settembre, ha visto crollare miseramente quella certezza di porsi come una delle superpotenze mondiali, sicura e inviolabile (non a caso , l’aggressione subita da Erika, durante il suo colloquio con gli agenti di polizia,è datata “undici” Giugno).
La protagonista, dunque, diviene la portavoce di tutti gli americani i quali, a pochi giorni dall’attentato alle Twin Towers, avevano compreso con non poca amarezza, che il loro stesso paese non sarebbe stato più come prima. Ciò è evidente nella sequenza durante la quale Erika fa il suo ingresso nel distretto di polizia. Da anni ormai, ognuno di noi è abituato alle gigantesche bandiere americane che campeggiano nelle inquadrature di buona parte dei lungometraggi statunitensi. Imponenti teli che si muovono sinuose e armoniche sotto le carezze del vento. La bandiera americana che, al contrario, appare nella pellicola di Jordan, è simile ad una straccio lordo e consunto dal tempo, relegato in un angolo, quasi come se destasse vergogna, addossato alla parete come una vecchia scopa. Un’immagine che più di tutte mira a lacerare nel profondo il celebre “mito americano”. Ma il personaggio di Erika non va analizzato unicamente sulla base dello stereotipato e ossessivo punto di vista politico, teso a favorire l’antiamericanismo imperante e il disprezzo nei confronti dell’attuale Presidente degli Stati Uniti ; Erica Bain, con il suo bagaglio di lacrime e vendetta, diviene l’emblema di tutti i cittadini, non solo americani, che oggi più che mai vivono nell’inquietudine costante, provocata da quella certezza di non sentirsi protetti e tutelati dai propri governi i quali, il più delle volte, sembrano, al contrario, tutelare i diritti di volgari stupratori e assassini, anziché garantire l’incolumità degli onesti lavoratori. E così la pratica del “farsi-giustizia-da -soli”(attuata da Erika) è divenuta l’unica forma di salvezza che resta ai cittadini, l’unico antidoto contro quel male che , giorno dopo giorno, notte dopo notte, prolifera nella strade e nei vicoli delle metropoli, divenuto ormai un mostro bello pasciuto , poiché nutrito con pietanze copiose a base di indifferenza e buonismo ipocrita, quest’ultimo inteso come il fondamento di quell’ideologia che affonda le proprie radici nell’immaginario collettivo del “buon samaritano”, teso a porgere carezze, baci e infinite coccole ai malviventi e a quella grande maggioranza di immigrati ,il cui desiderio di far progredire il paese che li accoglie, si espleta nel rafforzamento delle già solide impalcature che sorregono la criminalità organizzata. Il pregio de “Il buio nell’anima “, dunque, va ricercato nella sua polemica di carattere morale e sociale, esulando così dagli ormai banali slogan anti-Bush, che hanno caratterizzato buona parte delle pellicole statunitensi degli ultimi anni.
Il dramma personale di Erika,inoltre, si pone come un vero e proprio “pugno nello stomaco” nei confronti di coloro che giudicano le sofferenze altrui sulla base di giudizi spesso privi di fondamento, coadiuvati da non poca superficialità. La giovane donna , dopo la tragedia, si trova costretta a rimettere in discussione la propria identità; si confronta con quel “buio” che , fin dalla nascita, se ne stava rannicchiato in un angolo della sua anima, in attesa di quello che il sociologo Cavalli definirebbe “evento cruciale”, che gli consente di diffondersi nella mente e nel corpo fino ad ammorbarne l’essenza. Quel buio che le permette di conoscere un lato violento e aggressivo della sua personalità; Quel buio che la spinge all’inquietante riflessione la cui analisi si conclude in un'unica e semplice affermazione: “Non avrei mai pensato che questo sarebbe potuto succedere a me”. Quel buio, insomma, che permane in un’anima violata, la cui unica ricompensa consiste nel vivere in uno stato di smarrimento e angoscia. E quella stessa forma di clemenza alla quale si accennava precedentemente, applicata dai governi, viene condannata proprio da un tutore della legge, da uno di quegli uomini con pistola e distintivo che formano il corteo dei cosiddetti “tutori dell’ordine” che, agli occhi di Erika, appaiono come tante marionette schiave della burocrazia, incapaci di assicurare i colpevoli alla giustizia. Si tratta del personaggio secondario, il detective Mercer, il quale, nonostante sia profondamente legato al senso del dovere, non può che appoggiare i delitti a sfondo vendicativo commessi da Erika, sia perché addolorato da quanto accaduto alla donna sia perché, assieme ad essa, condivide l’insofferenza per lo stato che incita i cittadini a coltivare la solitudine e la paura, come fossero virtù, a causa della sua negligenza. Un dissenso che il detective Mercer dimostra nell’impossibilità , a differenza di Erika, di poter adottare la forma Machiavelliana de “il fine giustifica i mezzi”; mezzi ovviamente illegali ma che gli permetterebbero di inchiodare un losco magnate , principale oggetto della sua indagine, che tenta di portare a compimento durante lo svolgersi della vicenda.
Stefano Stanzione
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