VetrinaCinema |
a cura di Marzia Serra e Stefano Stanzione |
Sacha è un giocatore di rugby appartenente alla squadra delle “Tre fontane”, capitanata dall’algido e severo allenatore Porzia, soprannominato “Ras”. Sacha è in attesa che suo padre Carlo, ex-terrorista della destra estrema il cui reato si è ormai prescritto, faccia ritorno in Italia. Attorno al malinconico giocatore ruotano le singole vicende di Daniele, ragazzo gay picchiato dai suoi compagni di scuola; di Giulia e Prisca, le quali si dimostrano pronte a rendere pubblica la loro indignazione nei confronti di quanto accaduto allo stesso Daniele ; segue il disagio di Andrea, timoroso che la sua profonda amicizia per Sacha possa mutare in un sentimento più profondo e l’insoddisfazione di Mirko, figlio dell’allenatore Porzia, il quale non riesce a distinguersi per la bravura durante le partite, divenendo motivo di vergogna per il padre stesso anziché di orgoglio. Solitamente, quando ci si appresta ad assistere alla proiezione di pellicole firmate da giovani registi esordienti o, per meglio dire, principianti, durante i festival istituiti per apposite occasioni, il più delle volte il giudizio che prende il sopravvento è inevitabilmente negativo; a volte addirittura pessimo. Non appena i titoli di testa lasciano il posto alla scenografia e ai personaggi, immediatamente lo spettatore viene assalito da una crudele emicrania. Due sono le cause dovute ad un tale fenomeno: primo, l’insopportabile virtuosismo della macchina da presa , di cui gli pseudo-registi medesimi sono avidi, in simbiosi a ripetuti effetti di montaggio (migliaia di dissolvenze, split-screen, macchine a spalla frenetiche) , il tutto condito da uno script il cui concepimento sembra aver visto la luce grazie ad uno sceneggiatore morfinomane, in preda ad una crisi di delirio, il quale partorisce un insieme di sequenze completamente slegate fra loro, il cui significato nasce, vive e muore solo ed unicamente nel cervello dell’autore stesso, restando avulso da quell’ insieme di particelle che dallo schermo, giungono allo spettatore, fino a stimolarne il corpo e la mente; quelle particelle che formano quel termine semplice quanto fondamentale, che i grandi padri del teatro del Novecento avevano riportato in auge nel momento in cui, durante le esposizioni universali, si sono confrontati con gli spettacoli asiatici: l’emozione. L’emozione quella vera, semplice e genuina. Alessandro Guida, probabilmente, non ha dimenticato gli insegnamenti di Artaud, Craig, Stanjslavskj e, trasferendo il discorso sul grande schermo,nel marasma degli pseudo- registi, egli rappresenta l’eccezione che conferma la regola. Guida, infatti, si allontana dall’esibizionismo spesso infantile che caratterizza i suoi colleghi di cui sopra; non ha timore di offrire al pubblico una regia “classica” anziché “sperimentale”, imponendosi, quindi, con delicatezza e con una buona dose di discrezione per quanto concerne i movimenti e la scelta dei punti macchina. Ciò si nota nella costruzione delle inquadrature che mirano ad esaltare lo stato d’animo dei personaggi, la scenografia, la tenue luce che avvolge la camera di Sacha nel momento in cui riascolta il suo dialogo con il padre, registrato nel periodo in cui la voce del giocatore medesimo era intrisa di quell’innocenza che è propria dei bambini. A ciò si aggiungono carrelli innegabilmente piacevoli, che conferiscono la giusta fluidità ad alcune scene altrimenti troppo statiche. All’interno della pellicola, un ruolo di non poca importanza assume la musica. In effetti, errato non sarebbe considerarla un’ ulteriore protagonista. La drammaticità espressa tramite un giro armonico, puramente strumentale, ottenuto con un pianoforte in osmosi ad un sottofondo di archi (motivo presente in più di una sequenza), ben si amalgama ad alcune canzoni tipicamente pop/rock , la cui pacatezza e timida vitalità presente negli arpeggi di chitarra, entra in netto contrasto con l’aura cruda e a tratti violenta, che avvolge alcuni dei coetanei di Sacha, rappresentati come i tipici “bulli” liceali, il cui desiderio di “oppressione del più debole” viene rafforzato dall’ideologia di stampo estremista alla quale si dimostrano asserviti. Le melodie di cui sopra, al contrario, sembrano rivelare allo spettatore, in maniera sottile, il carattere reale, o per meglio dire, quella che gli sceneggiatori professionisti sovente indicano come “seconda dimensione del personaggio”; e cioè la fragilità che, ad esempio, caratterizza Sacha, Andrea e Mirko. Da ciò si evince che la brutalità, l’antisemitismo, il continuo inneggiare al duce, altro non sono che uno dei tanti mezzi adottati dagli individui nella società post-moderna e che lo studioso Vanni Codeluppi individua come “Vetrinizzazione del sociale”, ossia il voler affermare la propria identità nel quotidiano attraverso uno status symbol, che permette ad ognuno di noi di sentirsi in armonia con la collettività. Un tale espediente narrativo è chiaramente dovuto alla presenza dei due scrittori di cui si è avvalso lo stesso regista. E ciò si presenta come un altro aspetto assai positivo che differenzia, ancor una volta, Alessandro Guida dai suoi colleghi. La “poetica del regista” alla quale anelano questi ultimi, infatti, non sembra interessarlo granchè. Certo, nella pellicola è ben chiaro il suo stile. Ma la sua macchina da presa non arriva a desacralizzare lo script, anzi; essa lo segue pedissequamente, senza mortificarlo o tentando di spingerlo in secondo piano ,nel timore che la creatività degli sceneggiatori di cui si è avvalso possa “insudiciare la sua arte”. Perciò, anche in questo, Alessandro Guida dimostra una certa maturità che, in qualche modo, lo rende vicino ai cineasti di una volta, i quali, con grande umiltà, ammettevano che un film è il risultato di un lavoro collettivo, di una grande famiglia che mette a frutto le proprie conoscenze tecniche, il proprio ingegno e la propria passione, al servizio di un progetto in cui tutte le maestranze vi credono fortemente, ed il loro ruolo non viene snaturato da un cineasta che si pone autore a 360 gradi, ritenendosi alla pari di un romanziere o di un poeta. Gli stessi sceneggiatori, a loro volta, dimostrano una buona padronanza per quanto concerne l’intreccio narrativo, evitando di appesantirlo con una quantità eccessiva di colpi di scena o elementi poco utili alla diegesi. Il susseguirsi degli eventi, seppur incorniciati in sequenze di breve durata, rendono gradevole lo sciogliersi dell’intreccio medesimo fino al triste epilogo. La vicenda si svolge interamente nel quartiere Eur che, attraverso gli occhi dei vari personaggi e in particolare di Sacha, appare come un luogo che ha perso la sua identità, proprio come i protagonisti i, quali, nell’explicit, sembrano aver compreso che il sentirsi autentici,appunto, è legato non ai simboli o ad un determinato orientamento politico, che sia di destra, di sinistra o di centro; al contrario, l’essere vivi nella società odierna lo si afferma tramite la sincerità che pervade gli affetti veri come l’amicizia e l’amore . Il film è stato realizzato grazie al contributo di attori non professionisti; questi ultimi infatti, provengono dal laboratorio di cinema del liceo Francesco Vivona, nel quale hanno modo di studiare e apprendere le tecniche cinematografiche , sotto la direzione dello stesso Guida, nonché di provvedere alla successiva realizzazione dei progetti da loro stessi ideati. La pellicola, infatti, ha avuto origine e poi è stata plasmata dagli stessi allievi, la cui passione nei confronti di un’arte come il cinema, rappresenta un raggio di luce che penetra nel buio che ha avvolto( e avvolge tutt’ora) le scuole italiane, dove termini come disciplina, rispetto fra coetanei e nei confronti degli stessi insegnanti, hanno lasciato il posto all’ aggressività e ad una preoccupante insofferenza nei confronti delle regole. Essi, in qualche modo, divengono i portavoce di quella minoranza silenziosa di giovani che non hanno timore di mostrare un interesse precoce nei confronti della cultura e dell’arte medesima, ponendosi come antitesi rispetto all’uso spasmodico dei telefonini, ai filmati su “you tube”, alle insegnanti che prima si lasciano palpeggiare dai loro allievi e poi utilizzano i mass-media per gridare al mondo lo sdegno nei confronti del loro corpo divenuto “oggetto”. Insomma, un segno di speranza che auspica una riflessione da parte delle stesse istituzioni, affinché trasformino la scuola in un luogo in cui non dimori solo ed unicamente “l’indottrinamento” ma anche l’intenzione sincera di stimolare e promulgare la creatività degli alunni. Il film, pur affrontando tematiche giovanili, rivela comunque tentativi encomiabili come il voler rappresentare drammi più profondi che esulano dalla banalità imperante che ha spesso caratterizzato pellicole aventi al centro il mondo degli adolescenti, i cui dolori più acuti sembravano ridursi all’aspirazione infranta della diciottenne che sognava un vita da “velina”, al giovane incompreso che trova conforto negli spinelli, al gruppetto di teen-ager che resta vittima della depressione a causa dei seni troppo piccoli. “Nel nome di nessuno” è inoltre il chiaro esempio di come sia possibile realizzare un prodotto valido pur disponendo di un budget assai ridotto: il trucco per un buon film non sempre infatti consiste nell’ accumulare e investire milioni e milioni di euro; il più delle volte è sufficiente la passione, la voglia di collaborare e una piccola dose di “furbizia imprenditoriale”. Alessandro Guida e gli alunni del liceo Vivona lo hanno dimostrato. 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