VetrinaCinema
a cura di Marzia Serra e Stefano Stanzione
   

 

La Promessa dell'Assassino

Regia: David Cronenberg
Cast: Viggo Mortensen, Naomi Watts, Vincent Cassel, Armin Mueller-Stahl, Donald Sumpter, Josef Altin
Genere: Thriller
Distribuzione: Eagle Pictures
Giudizio: * * * *

Nikolaj Luzhin è l’autista di una potente famiglia affiliata alla mafia russa, capeggiata dal losco Semyon, proprietario di un ristorante lussuoso, situato nei pressi di un quartiere londinese. A pochi giorni dal Natale, un’ostetrica di nome Anna , entra in possesso del diario di una giovane, deceduta durante il parto. Il diario contiene informazioni compromettenti sulla famiglia di Semyon , la quale aveva annoverato la ragazza fra le tante prostitute da essa seviziate, vittime del sadismo di Kirill, unico figlio di Semyon. Anna si troverà in serio pericolo nel momento in cui rivelerà l’esistenza del diario al malinconico Nikolaj.

Desiderio di cambiamento, sperimentazione, eclettismo. Su questa sorta di dialettica Hegeliana, errato non sarebbe riassumere l’esperienza cinematografica vissuta dal cineasta canadese David Cronenberg, in questi ultimi anni. Chi non ricorda le pellicole d’esordio di questo medesimo autore, sempre in bilico tra una narrazione pseudo-filosofica ed il “gore” più estremo. Il giornalista e scrittore Massimo Moscati, nel suo testo “Breve storia del cinema”, definisce i primi lavori del regista “innegabilmente rivoltanti”. Si pensi a “Videodrome “, a “Rabid- sete di sangue” ,lungometraggi in cui prevaleva un interesse di Cronenberg nei confronti del corpo umano e delle mutazioni alle quali andava incontro, in particolare nel celebre “La mosca”, che potrebbe essere letto come una rivisitazione in chiave moderna della metamorfosi Kafkiana, in cui l’autore giunge ad esasperarne l’ambientazione claustrofobica che attornia il personaggio e gli aspetti orrorifici. Cronenberg, infatti, per lunghi anni, sembra aver seguito l’ideologia dello scrittore tedesco, il quale affermava che la letteratura non deve porsi come semplice intrattenimento o diletto; bensì deve colpire il lettore come “una scure sul nostro mare ghiacciato”, convinto che il libro utile, sia quello che agisce su di noi come una disgrazia, portatrice di un’indicibile sofferenza. Cronenberg ,dunque, ha trasposto una simile riflessione sul grande schermo. Ma nonostante le premesse, lo stesso Moscati, nel suo testo, è costretto a riconoscere una inopinabile estrosità del regista, che pochi sono in grado di eguagliare.
          Il gusto dell’orrido e l’analogia kafkiana, sono andate via via modificandosi nella creatività di Cronenberg, portandolo ad una evoluzione, scandita nelle tre fasi di cui si accennava nell’incipit. Lo stile, il” gore”, l’attenzione rivolta al corpo umano, dunque, permangono tutt’ora nel sub-strato ideologico dell’autore ma in pellicole come “Spider”, “History of violence”, e “La promessa dell’assassino”, risultano “addolcite”. Il nucleo kafkiano ,infatti,appare ora contornato da atmosfere grigie, a tratti caliginose, da personaggi inclini alla malinconia, fragili, alcuni estremamente sensibili, a volte in preda ad eccessi di isteria e grottesca malvagità. Tutto ciò è presente in “ La promessa dell’assassino”, ultimo lavoro di Cronenberg il quale, ancora una volta, recluta fra i personaggi principali Viggo Mortensen, protagonista del precedente “History of violence”.  La pellicola , nel suo evolversi, appare come un’aracnide che tesse la sua tela con cura minuziosa; una tela i cui filamenti imprigionano gli insetti più disparati. Nell’apertura, infatti ,si assiste ad un delitto in stile “resa dei conti” , che immediatamente porta lo spettatore ad avvalorare quanto letto sui giornali e sulle pagine del web, in relazione alla trama del film e all’argomento trattato. Si è dunque certi di assistere ad uno dei tanti gangester-movies, confidando,però, nell’originalità del regista il quale, come è sua abitudine, ne allieterà la visione con quel suo tocco personalissimo. Dopo una manciata di minuti, ecco che nella ragnatela viene imprigionato un altro “insetto”: il genere thriller, così bollato per necessità “informative” ma che appare riduttivo.
         Il ritrovamento del diario da parte di Anna, crea nella mente dello spettatore una moltitudine di immagini, in cui appare Anna medesima che fugge, inseguita dagli sgherri di Semyon, decisi a recuperare il diario, non prima di aver eliminato l’invadente ostetrica. Ancora una volta, un altro insetto finisce nella tela, spiazzando lo spettatore. Il film abbraccia il drammatico, che diviene più struggente, quando Anna legge le parole che la povera ragazza ha riportato nel suo diario, in cui descrive la solitudine e le torture a cui è stata sottoposta; il lungometraggio, dunque, si tinge di un pacato femminismo, accarezzando così un problema sociale che coinvolge ognuno di noi e che raggiunge il suo culmine nella sequenza in cui Kirill si diletta con alcool e prostitute minorenni dotate di corpi avvenenti, con i volti da femme-fatale nella cui carne sono incastonati occhi di bambine colme di paura e dolore. Il colpo di scena ricco di suspence, condito da una alluvione di proiettili in una strada trafficata sul cui asfalto sfrecciano due auto, viene dunque ridotto in frantumi da una regia lenta, pacata ; pacata quanto la narrazione medesima ed i dialoghi, i quali difficilmente si accavallano, in preda ad un ritmo di recitazione frenetico come spesso avviene nella maggior parte delle pellicole statunitensi. Il copione è in buona parte un “botta e risposta”, ben calibrato , il tutto condito da un montaggio che , in alcuni momenti, ricalca la formula del cinema classico hollywoodiano, basato sul rapporto di causa ed effetto, in altri esula dalla consequenzialità, immergendo lo spettatore nel mondo di Anna, caratterizzato dal dramma costruito attorno alla perdita del figlio da lei tanto atteso e dai battibecchi con lo zio russo, non privi di una certa ironia, espediente infallibile che stempera le atmosfere colme di un’eccessiva tensione emotiva, il più delle volte condita da una atmosfera di intrighi e delitti. Una sequenza invece che rincuora gli amanti degli action-movies, con particolare attenzione alla lotta corpo a corpo, va ricercata nella sequenza nel bagno turco, durante la quale Nikolaj, completamente nudo, affronta due ceceni armati di un curioso pugnale di esigue dimensioni, a forma di falce. Una sequenza che, per qualche istante, provoca quello stesso ribrezzo ispirato , dal lungometraggio prima citato, ossia “La mosca”.  Forse ben pochi si sarebbero meravigliati se, al termine della sequenza, fosse comparsa , in sovrimpressione, una scritta che recitava: “Scusate ma non ho resistito-in fede David Cronenberg”.
           Sta di fatto che la sequenza risulta efficace nella sua realizzazione in particolare grazie all’assenza di una colonna sonora. Si pensi alla quantità di scene d’azione supportate da un imponente accompagnamento sonoro, che si chiude nel momento in cui l’eroe neutralizza l’avversario (o l’antagonista nell’explicit), gettandolo da un palazzo dopo una furente scazzottata o con una scarica di pallottole, ripreso mentre si lancia verso lo schermo, accompagnato da un rallenty accattivante.  Nella sequenza costruita da Cronenberg e dallo sceneggiatore Steven Knigth, è sufficiente udire i corpi che si scontrano fra loro e che urtano sulle pareti, accompagnate dai colpi di pugnale , dalle grida di dolore e rabbia. Questa sorta di “silenzio rumoroso”arriva direttamente nell’animo del pubblico , scuotendo con violenza il suo apparato emotivo. Quest’ultima ,unita alla scena in cui Nikolaj compare di fronte ai capi dell’organizzazione criminale, nuovamente svestito, mentre lascia che uno di loro esegua sulla sua pelle alcuni strambi tatuaggi, racchiudono , ancora una volta, il fascino provato dall’autore nei confronti del corpo umano. I tatuaggi, simbolicamente, rappresentano i ricordi che rimangono indelebili sul corpo dell’uomo, ricordi di sofferenza, ricordi che nulla può reprimere o cancellare.
            I ricordi impressi sulla pelle e nella carne, non sono che la mappatura della vita di un uomo. Nel caso di Nikolaj, essi appaiono come i rovi di una selva che egli ha attraversato per lunghi anni, completamente solo; una selva che lo ha portato ha reprimere qualsiasi emozione, trasformandolo in un ibrido fra un gentiluomo in abito scuro dai modi pacati ed un gelido affiliato della mafia russa, ,che taglia le dita e strappa i denti alle vittime di Kirill, sadico e violento, arrogante e viziato che Nikolaj asseconda e di cui si prende cura quasi come fosse il fratello maggiore, nella speranza di guadagnarsi la sua stima , così da assicurarsi l’ingresso nella famiglia di Semyon non più come semplice autista. Il bozzolo algido che avvolge Nikolaj, in realtà, appare poco credibile ed efficace; infatti, la maggior parte delle emozioni che l’uomo ha represso, si sono concentrate nel suo sguardo, manifestandosi in un ‘unica semplice emozione , la tristezza, stato d’animo che condivide assieme alle prostitute vittime di Kirill, in particolare nel momento in cui quest’ultimo lo obbliga ad un rapporto sessuale con una di loro. E questa tristezza che ammorba Nikolaj diviene più chiara nell’ultimo colpo di scena. Grande merito va riconosciuto allo sceneggiatore Steven Knight, il quale non ha rinunciato ad una “lentezza narrativa”, che rendeva uno dei suoi ultimi copioni come “Piccoli affari sporchi” poco coinvolgente, a discapito di un intreccio narrativo indubbiamente originale ma che nella pellicola di Cronenberg risulta assai più gradevole. Ciò è dovuto, probabilmente, ad un’intesa creatasi con il regista medesimo, di cui Knight sembra aver interpretato quella “pacatezza stilistica” alla quale è approdato Cronenberg negli ultimi anni.

 

Stefano Stanzione

 


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