Regia: Jaume Balaguerò e Paco Plaza
Cast: Manuela Velasco, Vicente Jil, Pablo Rosso, Ferran Terraza,
Martha Carbonell, Maria Teresa Ortega, Claudia Font, Manuel Bronchud
Genere: Horror
Distribuzione: MediaFilm
Giudizio: * * * *
Angela è la classica giornalista disposta a tutto pur di ottenere uno scoop dal sapore innovativo e travolgente. Una simile occasione sembra presentarsi quando , assieme a Pablo, suo fidato cameraman, decide di seguire una squadra di pompieri intenzionata a soccorrere una donna anziana all’interno di un palazzo. L’orrore è il prezzo che Angela pagherà per la sua ambizione.
Sono trascorsi otto anni oramai, da quando un trio di ragazzi decise di sfidare Hollywood con una pellicola interamente girata per mezzo di videocamere digitali, ambientato all’interno di un bosco , nei pressi del Maryland, dimora, secondo una leggenda popolare, di una crudele strega. Leggenda che, ovviamente, diviene la materia prima su cui si fonda lo script, girato secondo un criterio documentaristico , all’inizio, per poi precipitare in un mondo oscuro, dominato da paure ancestrali; un mondo la cui scenografia viene orchestrata dalla medesima strega , che imprigiona i tre ragazzi all’interno del bosco con lo scopo di tormentarli, di privarli del loro equipaggiamento da campeggio, sottraendo loro cibo ed acqua ed infine ucciderli, nello stesso modo in cui, secondo la credenza della popolazione locale, aveva martoriato un gruppo di bambini molti anni fa. Il documentario “amatoriale” si trasformava in fiaba dell’orrore, in una sorta di Hansel E Gretel in chiave moderna, in cui l’orrore medesimo non consisteva nell’aspetto orripilante che la strega rivelava ai protagonisti ,così come avviene nel racconto dei fratelli Grimm; al contrario, l’orrore , o meglio, la pura angoscia, nel lungometraggio di cui sopra, veniva ottenuta proprio grazie all’impossibilità da parte dei tre personaggi ( e del pubblico) di conoscere l’aspetto di un vero e proprio “mostro”, la cui presenza veniva percepita ,solo ed unicamente, attraverso le risatine o per mezzo dei sassi lanciati contro i tronchi dei pini nel cuore delle notti autunnali, suoni inquietanti che riempivano l’animo dei tre ragazzi di un folle terrore. Un espediente narrativo infallibile, poiché risponde ad una regola basilare: ciò che non si vede, ciò che non si conosce, si teme maggiormente.
La pellicola di cui si è argomentato fino ad ora , risponde al titolo: “ The Blair Witch Project”, girato con budget ridottissimo , da molti criticato e da pochi apprezzato. Ma al di là di tutto, “The Blair Witch Project”, risulta tutt’ora un film innegabilmente originale, in grado di favorire la genesi di un nuovo filone capace di “osannare” quello che Nicholas Cage , nel lungometraggio “8 mm-delitto a luci rosse” , definisce come “ lo scabroso realismo dell’immagine”; un nuovo modo di fare cinema, insomma, che incuriosisce non pochi autori. Fra di essi ,va citato lo spagnolo Jaume Balaguerò.
In effetti, nel suo ultimo lavoro “Rec”, si riscontrano molti degli elementi che lo accomunano al film di cui sopra. Si pensi ai dialoghi: scarni, essenziali, ridotti all’osso( alcuni indubbiamente grotteschi). Niente monologhi riflessivi o critici; bensì frasi asciutte , il cui compito è unicamente quello di fungere da palco al terrore che attanaglia i due protagonisti e i personaggi secondari, qui rappresentati dai due pompieri che irrompono nel palazzo e da alcuni condòmini. Dialoghi che si accavallano l’uno con l’altro, esulando dai tempi di attacco delle battute che divengono il bozzolo di quell’’isteria, la quale, a sua volta, esplode nel momento in cui i personaggi si ritrovano intrappolati nell’edificio. Si notino, poi, le continue zoomate della macchina da presa( ovviamente si parla di una macchina digitale), le inquadrature volutamente “ non studiate” e che esulano, in molti casi, da qualsiasi rigore filmico . Per essere più chiari, inquadrature che appaiono improvvisate, con lo scopo appunto di rispecchiare lo sguardo, quello vero e naturale, dell’occhio umano, che decide lui stesso , nella più totale libertà, ciò che desidera vedere e come vederlo. Si notino, ancora, i momenti in cui la macchina da presa si concentra su un dettaglio, apparentemente inutile o su di una situazione apparentemente poco funzionale alla diegesi, come la bimba che accende di nascosto la videocamera di Pablo, lasciando che registri a vuoto; oppure agli istanti in cui Angela pone il suo viso di fronte all’obbiettivo (in particolare nell’ultimo atto) ansimando in modo terribile e che rimanda alla sequenza in cui la protagonista femminile di “Blair Witch” , in preda alle lacrime, chiede perdono ai suoi genitori( e a quelli dei suoi coetanei) per essersi spinta in quel bosco gelido a causa della sua irrefrenabile ambizione e infantile curiosità , cosciente di essere, oramai, tra le braccia della morte. In relazione a tale sequenza, errato non sarebbe riconoscere, in entrambe le pellicole e in particolar modo nel finale, un intento che il gentil sesso definirebbe “maschilista”. Sia “Rec” che “Blair Witch”, sembrano ripercorrere, forse involontariamente, la scia di quei lungometraggi hollywoodiani prodotti tra gli anni 30/40 nei quali, per porre un freno all’inarrestabile conquista dell’ autonomia, di cui si faceva protagonista l’universo femminile, i produttori optavano per sceneggiature in cui la donna, nell’explicit, veniva in qualche modo “punita”, a causa del suo desiderio di raggiungere la stessa posizione economica e sociale dell’uomo.
Gli aspetti che, al contrario, distinguono le due pellicole, sono ad esempio, gli stacchi tra una sequenza e l’altra, ottenuti per mezzo dell’improvviso spegnimento della macchina da presa, la cui durata si protrae per una buona manciata di secondi, spiazzando il pubblico in sala. Nel momento in cui prende avvio una nuova sequenza , il più delle volte,Balaguerò e Paco Plaza, altro autore che in questo lungometraggio lavora a fianco del regista spagnolo, mantengono viva la tensione penetrata nell’animo dello spettatore, agganciandosi ad una scena ancora più caotica e inquietante, per far sì che lo spettatore medesimo provi quella stessa sensazione di spaesamento provata dai loro personaggi. Espediente che non è possibile rintracciare in “ Blair Witch” , poiché dedito, sotto alcuni punti di vista, ad un intreccio piuttosto “classico”, che tenta il più possibile di rallentare l’effetto sorpresa, in modo da renderlo assai più efficace nel momento in cui quest’ultimo si presenta. Una tattica simile è rara, anzi, rarissima ,nel film della coppia Balaguerò/Plaza, ad eccezione dell’intervista che Angela e Pablo rivolgono ad alcuni dei condomini non ancora infettati. Una sequenza in cui l’elemento narrativo classico va identificato nell’ironia, rintracciabile, precisamente, nel personaggio dell’inquilino di mezza età ,omosessuale, compiaciuto al pensiero di apparire in video, contraddistinto da un look strambo, che lo rende simile ad un pittore squattrinato. I due autori, dunque, non lasciano spazio alla distensione, se non in questa scena; si impongono come due dittatori dell’immagine, il cui fine è quello di imprigionare gli spettatori in una cella di terrore, impedendo loro di uscirne, così come i personaggi del film restano intrappolati nell’edificio. Un ‘ulteriore diversità è da riscontrarsi nell’ambientazione. “ Blair Witch” si svolgeva , come già accennato,in un bosco, uno dei topoi più frequenti nel gothic romance ottocentesco e nelle fiabe dell’orrore in genere. In “Rec”, al contrario, la storia prende vita all’interno di un condominio. In esso, più che la solitudine, prevale un senso di alienazione. I protagonisti di “ Blair Witch”, vengono isolati dal resto del mondo da un’entità soprannaturale; i personaggi di “Rec”, invece, vengono rinchiusi (e trasformati in reietti), dalle forze dell’ordine e dal corpo sanitario, quindi, dai loro simili. E forse è racchiusa proprio in questo dettaglio una delle chiavi di lettura che contraddistingue “Rec” dal suo predecessore: nulla è più alienante di una metropoli, nelle cui viscere, si nascondono gli uomini e le donne che coltivano giorno dopo giorno il seme dell’indifferenza. Ma se fino ad allora, i protagonisti di “Rec” si erano ignorati, ora, che lo vogliano oppure no, si ritrovano a condividere una situazione orribile quanto surreale. “Rec” appare come una spietata analisi della società del ventunesimo secolo che si nutre , oltre che dell’indifferenza, anche di un’altra malattia: l’ossessione per l’immagine. L’immagine che mescola realtà e finzione, l’immagine che diviene come la dimora della strega di Hansel e Gretel, di cui siamo ghiotti e di cui non possiamo fare a meno. L’immagine rappresenta il bisogno dell’uomo moderno di essere presente ovunque, di conoscere tutto, dall’evento più significativo a quello più insulso. Una necessita alla quale Angela ed il suo cameraman non rinunciano. Perfino negli istanti in cui la loro vita è serio in pericolo, l’ostinazione di riprendere tutto , prevale sul desiderio di fuga e salvezza. La regola , insomma, non è “cosa” o “come “riprendere; ciò che conta è “riprendere”. Una norma pienamente rispettata dai mass-media e non solo. Il panico che si diffonde tra i protagonisti, le lacrime, le urla, le gole squarciate, appaiono in “Rec” come un’invettiva nei confronti della spettacolarizzazione della sofferenza, che ha garantito notevoli introiti alle produzioni televisive. Si pensi ai reality-show oppure ai programmi spesso in onda il pomeriggio, in cui una o più persone vengono invitate per raccontare di fronte allo schermo e al pubblico in studio, le proprie storie, fortemente drammatiche, abdicando alla propria intimità. L’ultimo atto del film potrebbe essere definito “la ciliegina sulla torta: l’ambientazione diviene claustrofobica, accentuata in particolar modo dalle foto e dalle immagini sacre che ricoprono le pareti della stanza occupata, tempo fa, da un sacerdote. Quest’ultima può essere accomunata all’ultima sequenza di “Blair Witch”, per quanto concerne la scenografia, poiché si svolge in una inquietante casupola abbandonata dove i protagonisti trovano la morte. Dunque un luogo buio e angusto. Ma per quanto riguarda la crudezza, in questo caso, l’ultimo atto di “Blair Witch”, paragonato alla sequenza finale di “Rec”, appare simile ad una puntata di “Hello Spank”.
Sostanzialmente, “Rec” può essere definito un film terribile; un‘esperienza disturbante, che lascia un senso di malessere profondo e di pura angoscia, che impiega alcune ore per svanire. Ciò è confermato dal pubblico medesimo. Infatti, quando si assiste alla proiezione di un horror, il più delle volte, si incappa nel gruppetto di adolescenti che commenta con ironia buona parte delle sequenze della pellicola, in particolare quelle più “gore”. Non è da sottovalutare, poi, l’incapacità di molti horror realizzati in questi ultimi anni, di non riuscire ad incollare alla poltrona lo spettatore, favorendo l’avvicinarsi di un nemico crudele: la noia. Ma non è certo il caso di “Rec”. Durante la proiezione, osservando i volti tesi degli spettatori, viene in mente quella risposta che si rivolge a chi ci chiede un parere su un determinato film. E la risposta, in questi casi, è: “C’era il gelo in sala”.
Neanche una parola, né una battuta, ne un commento; solo coppie strette l’uno all’altra, spettatori che in più di un’occasione sobbalzano dalla poltrona, altre che , invece, “abbandonano il campo”, incapaci di resistere ad una simile tortura. Una scelta, quest’ultima, che costituisce un’immensa gratificazione per un autore di film horror.
Stefano Stanzione
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