VetrinaCinema
a cura di Marzia Serra e Stefano Stanzione
   

 

The number 23

Regia: Joel Schumacher
Cast: Jim Carrey, Virginia Madsen, Logan Lerman, Danny Huston, Rhona Mitra, Michelle Artur, Lynn Collins, Mark Pellegrino
Genere: Thriller psicologico
Distribuzione: 01 Distribution
Giudizio: * * * *

The Number 23Walter Sparrow, di professione accalappiacani, vede la sua vita precipitare in un vortice oscuro a causa di un romanzo acquistato per caso dal titolo “Il numero 23”. Mentre ne sfoglia le pagine, Walter riconosce nel personaggio del manoscritto se stesso, compresa la presenza del medesimo numero 23 ,che coincide con le fasi più importanti della sua esistenza. L’ossessione raggiunge il culmine nel momento in cui decide di rintracciare lo scrittore del romanzo.

Molti sono soliti affermare che gli attori comici sono dotati di una notevole verve nel momento in cui si trovano ad interpretare ruoli differenti, ad esempio drammatici; un’affermazione inopinabile.

Colui che resta degno di nota, per ciò che concerne il cinema statunitense di questi ultimi anni, è Jim Carrey.

I primi film con i quali l’attore decise di presentarsi al pubblico di tutto il mondo furono “The Mask”, “Scemo più scemo” , “Ace Ventura”, per poi giungere ai più recenti come “Io, me e Irene “ e “Bugiardo, Bugiardo”. Pellicole che divertirono milioni di spettatori(soprattutto i giovani) per mezzo di un gioco di espressioni facciali portate, dallo stesso Carrey, ad una dimensione grottesca e demenziale , in simbiosi ad alcuni movimenti somatici riscontrabili nelle “slapstick-comics” di cui Chaplin e Keaton ne sono tutt’ora i massimi esponenti, e che l’attore sembra aver studiato e poi reinterpretato, aggiungendovi quel tocco di “estremismo interpretativo” di cui dispone. Ma i lungometraggi di cui sopra , ben presto, gli garantirono, assieme alla notorietà, l’etichetta di “giullare da cinematografo”; uno dei tanti attori comici di secondo ordine, avido di copioni dall’incasso garantito e di puro intrattenimento, adatti ad un pubblico medio, il quale, dopo una giornata di lavoro, non aspetta altro che prendere posto in una sala buia e lasciarsi condurre in un oceano di grasse di risate da quella marionetta dalla faccia buffa che salta, corre, grida, lasciandosi andare a battute da trivio. Jim Carrey non ha gradito una tale considerazione e con “The Truman Show” ha inferto un pugno nello stomaco a tutti coloro che fino a quel momento lo avevano considerato un fenomeno da baraccone. Ma non si è accontentato; è andato oltre. Basti pensare a “The Majestic”, in cui veste i panni di uno sceneggiatore vittima del maccartismo che ,in seguito ad un incidente , perde la memoria e viene riconosciuto dagli abitanti di una piccola provincia nel figlio di un esercente, tornato dalla guerra; una pellicola che offre al mondo un Jim Carrey , malinconico, a tratti codardo, che piange vicino al capezzale dell’uomo che lo reputa suo figlio naturale; poi ancora “Se mi lasci ti cancello”, in cui appare come un tipo mediocre, apatico, insoddisfatto della propria vita e della propria donna, completamente avaro di ironia e di sorrisi. Non più il Jim Carrey buffone, non più il Jim Carrey che salta da una parte all’altra dell’inquadratura, come un orango eroinomane. Ma nulla è più dolce dello stuzzicare la ferita quando essa non si è ancora rimarginata. Le riviste cinematografiche ,infatti, preannunciavano l’uscita del nuovo lavoro di Joel Schumacher ,“The number 23”, che, a fine Aprile, ha fatto la sua comparsa nelle sale cinematografiche di tutta Italia. Negli occhi dei romani, si leggeva stupore nell’apprendere che il lungometraggio di cui sopra, bollato come thriller psicologico, fosse interpretato proprio da Jim Carrey; uno stupore paragonabile allo sgomento che invaderebbe l’animo degli inquilini di un qualsiasi palazzo, nel momento in cui venissero a conoscenza che il loro simpatico e affabile vicino del primo piano è stato arrestato con l’accusa di aver fatto a pezzi la propria consorte per poi conservarne i resti nel frigorifero. E se Carrey avesse potuto constatare lui stesso tale stupore, probabilmente avrebbe gioito come un bimbo che riceve il videogioco da lui tanto atteso.

Joel Schumacher ed il suo sceneggiatore trascinano lo spettatore in un mondo inquietante, dove dominano le ombre sulle luci e le linee verticali sulle orizzontali. Un mondo, che nell’incipit, viene mostrato attraverso il personaggio di Walter Sparrow, un accalappiacani che conduce una vita nella norma, con una moglie ed un figlio, in una delle tante villette a due piani che popolano le provincie americane. Ma questa sua stessa esistenza serena, viene ridotta in frantumi nel momento in cui sua moglie rinviene un curioso manoscritto dalla copertina rossa, intitolato “Il numero 23”. Lo spettatore viene trascinato, assieme a Walter ,nell’universo narrato nel manoscritto stesso, intriso di atmosfere dark e caratterizzato da uno stile narrativo molto vicino al genere noir. Tutto ciò ,in effetti, rappresenta l’aspetto più gustoso del lungometraggio, per tre motivi: primo, la narrazione in prima persona e l’impronta stilistica,appunto, del misterioso autore del romanzo letto da Walter, fa apparire il tutto come una sorta di fiaba dell’orrore, attraverso un percorso che si snoda dalla luce fino all’inevitabile tenebra. Secondo, ogni sequenza narrata nel romanzo viene rappresentata sullo schermo attraverso una fotografia affascinante, supportata da una scenografia che, a tratti rivela anche una certa originalità(basti pensare alla sequenza in cui appare la bionda suicida). Terzo, la medesima lettura del romanzo da parte del protagonista consente a Carrey di “sdoppiarsi”, nel senso letterale del termine ed interpretare(in maniera eccellente) sia Walter Sparrow, il piccolo borghese dall’aria innocua e un po’annoiata che il detective Fingerling,protagonista del manoscritto, simile ad un demone , con il suo cappotto nero, i capelli pettinati all’indietro, con un tono di voce che a tratti sembra ricalcare Bogart, senza scadere nel macchiettismo(come, purtroppo, è avvenuto per l ‘ultima pellicola di Brian De Palma “Black Dhalia”) , nei cui occhi risiede il tormento a causa di quel numero 23, che ben presto inizia ad ossessionare lo stesso Sparrow. Da ciò si potrebbe evincere che la peculiarità del lungometraggio, sia insita nell’aspetto visivo, a discapito della sceneggiatura. Ma non è affatto così. Il plot è perfettamente in sintonia con le atmosfere del film, e nella sua individualità, risulta ben costruito e macchinosa, come è giusto che sia, poiché la compagna inseparabile di Walter è l’ossessione , in questo caso tradotta per mezzo di una sorta di cabala “luciferina”, che raggiunge il culmine, nel momento in cui il protagonista sembra aver rintracciato l’autore del romanzo, il cui omicidio narrato al suo interno, corrisponde, secondo Sparrow, ad un delitto che l’autore ha realmente commesso. Il plot, quindi, è costruito su di una struttura “a vortice”, risultato dell’inevitabile percorso che intraprende una mente affetta da disturbi ossessivi.

In un simile aspetto, errato non sarebbe leggervi un intento maliziosamente ironico del regista e dello sceneggiatore, nel voler indurre il pubblico ad una lieve “perdita del senno”, o per meglio dire, ad uno stordimento, dovuto alle innumerevoli combinazioni ottenute grazie al numero 23, estrapolate durante lo svolgersi della vicenda, così da renderlo pienamente partecipe della follia che si impadronisce di Walter. Il tema che emerge nella pellicola(e che risulta ben più chiaro nel finale) consiste nell’impossibilità di liberarsi da un passato oscuro, durante il quale ognuno di noi, commette inevitabilmente degli errori, ai quali non ha posto rimedio nella vita attuale. Un argomento che non è nuovo alla cinematografia americana. Ma, come afferma Furio Scarpelli: “Ciò che conta non è “cosa” si racconta ma “come” lo si racconta. Sceneggiatore e regista sono rimasti fedeli a tale principio.

Stefano Stanzione



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