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a cura di Alessio Sperati
  

 

Intervista a Paolo Santoni
Napoli 5 Settembre 2002

Il 5 Settembre al Cinema President di Napoli è stato presentato in anteprima nazionale il film documentario di Paolo Santoni "Cuore napoletano", un viaggio nella canzone classica napoletana, con i suoi grandi interpreti del passato e del presente, le sue attuali forme e soluzioni espressive. Abbiamo rivolto alcune domande al regista:

Quando e perché hai sentito la necessità, pur essendo nato a Roma, di costruire questo documento sulla cultura musicale partenopea?

P.S. Il progetto è nato da una serie di letture di testi delle canzoni napoletane che hanno fatto nascere la voglia di vedere cosa ci fosse dietro e ho cominciato così anche a documentarmi dal punto di vista storico e ho così scoperto una straordinaria convergenza tra canzone e cinema. Quindi l'approccio è stato più di carattere concettuale, che di carattere prettamente narrativo o emotivo, poi in realtà da questo primo momento sono passato alla scoperta di questo panorama musicale prima in America dove questa tradizione è vissuta in maniera molto arcaica e poi a Napoli dove invece ci sono tanti generi che hanno in comune la base della canzone classica.

Hai sentito una differenza piuttosto ampia tra le testimonianze musicali prese qui a Napoli e quelle raccolte negli Stati Uniti dove inevitabilmente la tradizione è rimasta quasi congelata al tempo dei primi emigrati italiani?

È vero che negli Stati Uniti la cultura musicale napoletana è cristallizzata, ferma nel tempo, anche se è molto curioso vedere come hanno tradotto i testi napoletani in inglese, vedo che c'è anche lì una trasformazione, un ciclo biologico del suono: la "Tammurriata nera" è diventata "Pistol Packin' Mama", "O sole mio" è diventato "Beneath thy Window", quindi anche lì c'è un processo di metamorfosi. Qui a Napoli c'è invece un coro polifonico, molte voci che rappresentano appunto un pezzo di storia, però devo dire che c'è in tutti i cantanti che ho incontrato un desiderio di confrontarsi con il repertorio classico e questo è molto importante, vuol dire che c'è un interesse verso la propria storia, le proprie radici.

In questi giorni si sta svolgendo la 59° Mostra del Cinema di Venezia, dove il cinema italiano rischia di far la parte dello spettatore, in questa ricorrenza che diviene sempre più internazionale e sempre meno nazionale e si dibatte appunto sul come "internazionalizzare"maggiormente il nostro cinema: può essere questa la chiave, il partire da una cultura fortemente popolare, dalle nostre radici? È questo che potrebbe salvare il cinema italiano?

Secondo me sì e vediamo che un autore molto noto come Takeshi Kitano porta a Venezia un film che è il non plus ultra della cultura giapponese; maggiore è l'attaccamento e la capacità di uno sguardo nuovo verso la propria cultura e maggiore sarà l'interesse delle platee internazionali. C'è questa tendenza a fare dei prodotti poco forti dal punto di vista culturale, poco identificabili come nazionalità, secondo me non hanno molto futuro. Adesso vedrò cosa il pubblico straniero mi riserverà perché il film sta andando al Festival di Toronto, so che è stato molto apprezzato dalla commissione che l'ha giudicato e vedremo che impatto avrà sul pubblico.

Ho visto che hai utilizzato sistemi totalmente digitali, o in alta definizione, o semplicemente in DV; considerando che l'avvento del digitale ha un po' diviso i cineasti in due sfere, i pro e i contro, tu come ti sei trovato con queste nuove tecnologie?

La decisione di girare in alta definizione, è nata pochi giorni prima delle riprese, l'operatore con cui lavoravo mi aveva indicato questa possibilità, fortunatamente poi abbiamo visto quale sarebbe stata la destinazione tecnica, cioè i laboratori Duboi di Parigi, quindi ci siamo rivolti a loro per completare il film. Sulla questione digitale o no, io ho scelto digitale per ragioni anche pratiche: per un documentario in cui si sono girate molte ore è comodo avere delle semplici cassette di 50 o 60 minuti che ti consentono di girare molto; per il costo no perché questo film è costato molto, perché l'alta definizione è un processo estremamente costoso, perché per avere dei risultati buoni bisogna lavorarci molto e questo costa.

Alcuni cineasti hanno notato una difficoltà nella profondità di campo, uno schiacciamento dell'immagine, cosa ne pensi?

No, non ho avuto questo problema, sono soddisfatto della profondità di questo sistema, anche perché su una telecamera digitale puoi inserire qualsiasi tipo di obiettivo, è un sistema molto versatile.

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