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a cura di Alessio Sperati
  

 

Ferzan Ozpetek presenta a Roma il suo ultimo film "La finestra di fronte"
Ozpetek scruta negli abissi della memoria
"Se un giorno non potrò più fare film mi darò alla cucina"

di Alessio Sperati

Quando il cinema italiano sembra ripegare su se stesso, ecco arrivare lui, Ferzan Ozpetek, il regista dell'interiorità che si svela lentamente come un cielo stellato dopo la tempesta, felice di potersi esprimere. Acclamato da una platea di giornalisti consenzienti, cancella le sue ansie e si presenta in tutta la sua simpatia e disponibilità. Sorretto e amato dai suoi attori, Giovanna Mezzogiorno e Raoul Bova, il regista parla di memoria storica, di amore sofferto e soprattutto, parla di una nazione, l'Italia e di una città, Roma che lo hanno adottato. Il cinema è per lui motivo di espressione libera, è una grande passione e dice "se in futuro non avrò più questa passione mi darò alla cucina". Una figura discreta ma innovativa, lucida e cangiante, che ama la luce dei riflettori solo come condivisione di alcuni momenti di gioia con il suo pubblico, sempre più vasto.

Cronaca di un successo annunciato. Dopo Le fate ignoranti, ci si aspettava tanto da lei. Come si è preparato al compito di un nuovo ed impegnativo film come questo?

Questo film si basa sulle mie emozioni: gioie, risate, lacrime, tutto ciò che ho vissuto e condiviso con il mio gruppo di lavoro. Il film ha molte cose di me, quindi l'espormi mi ha creato molta ansia, ma quando penso che ci sono tanti spettatori che ti amano senza neanche conoscerti, immagino di fare il film con loro e per loro. La mia più grande preoccupazione è il non deludere queste persone.

Sembra che il finale abbia rappresentato un punto di discussione durante le riprese, è così?

Di solito tutte le volte che giriamo un film, facciamo sempre dei cambiamenti. Io cerco sempre di avere gli sceneggiatori con me sul set nel caso ci siano da apportare modifiche, e di solito è così: seguiamo le emozioni della giornata. Il finale è stato cambiato a prencindere dalla morte di Massimo perché quando lui è morto il film era già stato completato. Quando ho appreso della sua scomparsa stavo completando la fase di montaggio.

Rappresentati da un linguaggio fortemente figurativo, i suoi personaggi vagano alla ricerca di una loro identità. Da cosa nasce questo desiderio di trovarsi, di scoprirsi?

La ricerca è cosa molto comune, se non fossimo continuamente in cerca la vita sarebbe molto piatta. Io credo nei segni, basta pensare che uno esce di casa e può incontrare una persona che ti cambia la vita. Io cerco comunque di raccontare le cose che sento, vado con le emozioni e con i sentimenti, non posso pensare "questo piacerà o questo no", faccio solo quello che sento. Se un giorno non avrò più questa passione, smetterò e mi darò alla cucina.

Da dove viene l'idea dello scambio di identità?

Ricorda la scena in cui Giovanna chiede l'identità della Cinese? Ecco lo scambio di identità. L'idea nasce da una mia esperienza di vita: un giorno ho incontrato un signore anziano vicino a Ponte Sisto che aveva i soldi in mano in questo modo. Io pensavo che era un imbroglione, ma poi abbiamo trovato la sua casa e mi ha confidato che non era mai uscito da più di 30 anni. Ancora oggi mi chiedo perché. Ricordo quell'evento con commozione perché era come se l'anziano signore fosse spaventato dalla città, questa cosa mi è rimasta dentro. Poi ho pensato con Gianni di raccontare la storia di una coppia con dei problemi, che incontra un uomo che cambia la loro vita. Lui scrive e io cambio, poi arriva il terzo occhio femminile che supervisiona il tutto: sono tre film che facciamo così.

Quanto può essere terribile, dimenticare il proprio passato? Quanto è importante la memoria storica?

Io abito in un palazzo di inizio secolo e quando sono solo, penso sempre a quelli che hanno vissuto in quella casa prima di me, che hanno fatto l'amore, hanno superato gioie e dolori, nascite e morti. Le pareti della città sono impregnate dei ricordi delle persone, e questo pensiero ha influenzato molto la nostra sceneggiatura. Mi è sembrata una buona idea parlare della memoria storica ma nell'ambiente di oggi, perché rappresentazioni del passato le hanno già fatte e in modo splendido.

Perché la scelta del quartiere Donna Olimpia?

Perché volevo case popolari, cioè quelle case che hanno memoria. Quelle fuori Roma non hanno memoria, e sono anche più brutte a mio parere.

Come ha scelto gli attori?

Quando ho scelto Raoul molte persone mi hanno scritto accusandomi di essermi venduto ad un cinema troppo commerciale, ma credo di aver smentito tutti con questo film. Raoul è un grande attore solo che è pieno di paure. Ancora non riesce ad aprirsi, a lasciarsi andare, ha un'altra persona addosso. Quando poi un attore ha paura mette paura anche al regista, quindi ci guardavamo come due felini. Credo che stia andando in una buona direzione, ha molto margine di miglioramento. Mentre facevamo le letture del copione a casa mia, ricordo che Giovanna tendeva giustamente a recitare e io le dicevo di non farlo. Poi si cimenta Massimo alla lettura ed ha cominciato anche lui a recitare e noi altri siamo rimasti in silenzio emozionati. Giovanna poi mi ha detto "ecco lui può recitare e io no", ma la confidenza che avevo con i due attori era diversa. Con lei credo di avere molto feeling, lei fa delle cose che io sto per dirle di fare: quando lei esce di casa e va incontro a Raoul, io penso "mannaggia non le ho detto di girarsi indietro" e lei lo fa, è meraviglioso.

Un film sull'amore immaginato. È paura di vivere l'amore stesso o è la vita che poi va diversamente rispetto ai nostri sogni.

No. Non è paura. Quante volte ci sono capitate situazioni in cui abbiamo dovuto mettere sulla bilancia diverse situazioni per poi fare la scelta migliore per noi ma anche per le persone che amiamo. È purtroppo il mistero della vita: una grande passione dura per due anni o quattro anni, poi le cose vanno diversamente, o si diventa amici o si è complici di un rapporto di parentela come fratello/sorella. Per mio fratello è così. Ci sono alcuni casi nei quali si cade nella perversione per tanto volersi male. Se c'è una paura, è quella delle responsabilità.

La bellissima frase detta da Girotti: "...non si accontenti di sopravvivere, lei deve pretendere una vita migliore non soltanto sognarla, io non ce l'ho fatta" nasconde anche un messaggio politico?

Il film nasce dal nostro malessere, quindi sì il messaggio politico di fondo c'è, ma voglio lasciare al pubblico la bellezza di scoprire tutti i significati nascosti. Anche la canzone di Nada, "Ma che freddo fa" non è stata scelta a caso, devo dire che io sento molto freddo in questo periodo storico. Riguardo la memoria storica ho una piccola storia che voglio raccontare: un giorno vado in Via dei Giubbonari, e sento una signora che parla al marito di quel fatidico giorno, quel 16 ottobre. Le chiedo informazioni e lei mi racconta la sua storia: "ero piccolissima ma non dimenticherò mai il freddo della pistola sulla tempia. Ancora oggi mi pare di sentirlo."


 

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