Roma
e l'Italia "tutta" rendono il doveroso tributo ad
un italiano autentico |
L’ultimo
grande spettacolo di Albertone |
Si
è spento all’età di 82 anni l’interprete
di mezzo secolo di storia del cinema, emblema di vizi e virtù
di un Paese che oggi, senza di lui, sente che qualcosa è
cambiato |
di Alessio
Sperati
Roma.
Alberto Sordi si è spento nel letto della sua villa romana
di piazzale Numa Pompilio poco dopo le ventitré di Lunedì
24 Febbraio 2003. Da alcuni mesi soffriva di una grave malattia,
affrontata con coraggio insieme alle uniche donne che gli sono state
accanto per tutta la vita, la sorella Aurelia, alla quale, prima
dell’ultimo sospiro, ha voluto rendere un ripetuto “grazie”
e la fedele cuoca Pierina, da 47 anni al suo servizio. Dal giorno
seguente oltre 50.000 persone si sono avvicinate alla camera ardente
per dargli l’estremo saluto prima della solenne cerimonia
di giovedì 27 tenuta nella Basilica di San Giovanni in Laterano,
che ha visto la partecipazione di 250.000 persone provenienti da
tutta Italia, ognuno ringraziandolo a suo modo, citando frasi dei
suoi film o, chi ha avuto la fortuna di dividere esperienze con
lui, rievocando aneddoti e ricordi. Nino Manfredi si è espresso
così: “Albe’, lasciame un posto in Paradiso accanto
a te così continuamo a scherzà, altrimenti m’annoio…”.
“Se n’è andata l’anima di Roma, il simbolo
della romanità in genere”, aggiunge Lando Fiorini.
Christian De Sica ricorda: “Mio padre mi raccontava che quando
uscivano insieme, Alberto Sordi gli dava sempre delle piccole spintarelle:
una volta lo fece cadere addosso a Fanfani”, testimonianza
che si aggiunge a quella di altri due figli d’arte, Alessandro
Gassman e Gianmarco Tognazzi, uniti nel dolore e nel ricordo dei
loro rispettivi scomparsi. Di lui Pupi Avati, ora Presidente di
Cinecittà Holding, ricorda di quando fu testimone della nascita
della cittadella del cinema, partecipando alla sua inaugurazione
il 27 aprile del 1937, appena diciassettenne, e aggiunge che saranno
promosse molte iniziative in suo nome: a partire dalla dedica alla
sua memoria del Centro Sperimentale di Cinematografia, per continuare
con un documentario di un’ora e mezza contenente testimonianze
e filmati dell’Istituto Luce sulla sua vita, che girerà
l’Italia a partire dal mese di Aprile, insieme ad una rassegna
delle sue migliori interpretazioni. Uno dei più commossi
è stato Gigi Proietti, che ha desiderato ricordarlo non con
un’orazione funebre, ma con un sonetto a lui dedicato:
“Io
so’ sicuro che nun sei arrivato ancora da San Pietro in ginocchione
A mezza strada te sarai fermato, a guarda’ ‘sta fiumana
de persone
Te renni conto sì ch’hai combinato?
Questo è amore sincero, è commozione, e rimprovero
perché te ne sei annato.
Rispetto vero: tutto pe’ Albertone…
Starai dicenno: ma che state a fa’? Ve vedo tutti tristi ner
dolore
E c’hai raggione, tutta la città sbrilluccica de lacrime
e ricordi
E tu non sei sortanto un granne attore, tu sei tanto de più:
sei Alberto Sordi.”
In
molti hanno ricordato anche le parole che Sordi stesso pronunciò
nel 1997: “Alla morte ci penso come tutti ma senza angoscia,
so che me ne andrò un giorno ma continuo a vivere con lo
stesso entusiasmo di quando ero giovane. La vita è un dono
troppo grande per non godersela, e poi da cattolico credo nell’immortalità
dell’anima.”
Nato il 15 Giugno del 1920, Alberto Sordi, figlio di un direttore
d’orchestra, è cresciuto nel quartiere di Trastevere,
del quale spesso amava rievocare immagini, profumi e tradizioni,
oggi purtoppo perdute. È stato proprio facendo il chierichetto
nella chiesa di Santa Maria in Trastevere che scoprì la sua
vocazione di attore: “mi esibivo con il turibolo intorno all’altare
mentre servivo messa e funzioni liturgiche, così mi presi
uno schiaffone dal parroco che mi disse – non si fanno queste
cose, le farai in teatro se diventerai attore ma non qui –.”
Dal 1936, spinto da un’irrefrenabile passione, si cimentò
in diversi campi del mondo dello spettacolo: da fantasista a comparsa,
da imitatore a doppiatore (vinse infatti il concorso bandito dalla
MGM per il doppiaggio ad Oliver Hardy). Nel 1942 fu il protagonista
de “I tre aquilotti” di Mario Mattoli, poco prima del
suo esordio radiofonico avvenuto nel 1947 dove si impose presto
con i suoi personaggi: il compagnuccio della parrocchietta, il Conte
Claro e Mario Pio. Nel 1950 debuttò sul grande schermo con
“Mamma mia che impressione”, un film di Roberto Bavarese.
La sua particolare attitudine fu subito intuita da Federico Fellini
che lo fece protagonista nel ’52 de “Lo sceicco bianco”,
divertente parodia dei miti del tempo. L’anno seguente rimane
indelebile per quel grido “lavoratori!” seguito da una
pernacchia all’interno dei “Vitelloni”, critica
forte di una generazione passiva. Nel ’54 diviene Nando Moriconi,
americano dentro e romano fuori, primo tassello di una presa di
coscienza della necessità del suo ruolo di antieroe popolare,
di smitizzatore delle masse. Proprio mentre Marlon Brando ne “Il
selvaggio” costruiva quel prototipo di americano in giacca
di pelle e moto, che tanta emulazione aveva creato nell’Italia
anni ‘50, arrivò lui, come specchio di vizi e virtù
di una nazione intera preda di un’epoca di falsi miti, nella
quale iniziava a farsi strada l’arte di arrangiarsi, di sgomitare,
di prevalere. I suoi modelli recitativi dissacranti toccano tutti
gli strati sociali e tutte le categorie professionali, dai nobili
ai poveracci, dai medici arruffoni ai vigili che abusano del loro
potere, dai tassisti, ai seduttori, ai mariti gelosi, tutti si sono
sentiti messi in gioco almeno una volta. “Il moralista”
di Giorgio Bianchi è il film in cui la satira di costume
è più forte, dove la critica ad un perbenismo ed un
moralismo formale si fa sentire maggiormente. Le numerose collaborazioni
con Mario Monicelli restano incancellabili nella memoria, da “La
grande guerra” a “Un borghese piccolo piccolo”,
fino al mitico “Il Marchese del Grillo”. Tante bellissime
avventure vissute con intensità e divertimento, attraverso
una semplicità e spontaneità di fondo che fanno del
suo modello recitativo un elemento irripetibile.
Che Alberto Sordi sia stato un uomo profondamente religioso è
risaputo: tutti ricorderanno il saluto al Papa pronunciato il 17
dicembre del 2000 in occasione del Giubileo degli artisti, unico
ma intenso incontro con il Pontefice. La sua religiosità
viene dalla famiglia, da una passione ereditaria che ha sempre coltivato
e che resterà viva attraverso le sue opere di bene, la più
grande delle quali è la costruzione di un centro anziani
(oggi 45) in grado di porre nuovamente persone sole ed estraniate,
in contatto con il mondo attraverso arti manuali, incontri culturali
e naturalmente il teatro.
In un’Italia senza sovrani, Alberto Sordi è stato acclamato
Re di Roma: come un sovrano in grado di elargire doni al proprio
popolo, ha fatto il dono più grande ad ognuno di noi, il
più difficile e raro, quello di un sorriso, e nella grande
rappresentazione dell’Immenso siamo certi che Alberto, Marcello,
Massimo, Ugo e Vittorio continueranno a donare felicità attraverso
la magia dell’arte. Nell’unico giorno in cui il nome
di Alberto Sordi ha fatto versare lacrime, non possiamo fare altro
che ringraziarlo di essere esistito.
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