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cura di Alessio Sperati
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Carlo Verdone parla della sua ultima creazione artistica come di una ricerca di sintonia, della voglia di stare insieme, di ritrovarsi parlando apertamente delle proprie insicurezze ed esorcizzando le proprie paure. Dopo tre anni dal suo ultimo film, si ripropone con un film corale dove ogni personaggio si esprime in ugual misura, ed il suo lato registico ha più spazio per esprimersi. Ma che colpa abbiamo noi nasce dalla collaborazione con Pietro De Bernardi, Pasquale Plastino e Fiamma Satta ed ha richiesto un anno e mezzo di lavoro. Durante l'intervista Verdone non si risparmia nel raccontare vicende accessorie alle riprese e nel muovere critiche a registi italiani della sua generazione divenuti eccessivamente scostanti verso i colleghi, con particolare riferimento a Roberto Benigni.
Come mai hai deciso di tornare sull'argomento psicanalisi? Quali sono le ragioni della nascita di questo film? Il tema della fragilità psicologica mi sembrava attualissimo. Quattro mesi dopo l'11 settembre 2001, ho letto un articolo che parlava di un vertiginoso aumento degli adolescenti in terapia. Stiamo vivendo un periodo storico di grande perdita dei riferimenti, e mi è piaciuta l'idea di parlare di un gruppo di analisi al quale viene a mancare il punto di riferimento, l'analista. A questo aggiungiamo anche la voglia di passare più tempo dietro la macchina da presa: lo svolgere un film corale dove tutti hanno un loro spazio ed io non sono il punto nevralgico della storia, mi ha consentito di dedicarmi di più alla regia. Infine la voglia di lavorare con dei bravi attori mi ha spinto a creare questa bella squadra di lavoro. Sono stato felice quando Margherita ha detto di sì, sono felice di aver scoperto Raquel e di averle dato la possibilità della sua prima esperienza cinematografica. Nasce tutto dalla voglia di stare insieme. Condividere serenamente le proprie fragilità e accettarle con filosofia cercando di modificarsi senza cambiarsi il che non sarebbe possibile, è il piccolo messaggio del film. Raccontare otto storie diverse esplorandole singolarmente è stato abbastanza difficile ma non ci siamo dati alcun tipo di scadenza.
Mentre scrivevate la sceneggiatura del film avevate già in mente gli attori? No. È stato uno dei pochissimi film della mia carriera scritto senza conoscere minimamente chi sarebbe stato quell'attore o quell'attrice. Galeazzo detto Gegè era l'unico ad avere un volto, il mio. Abbiamo fatto anche provini, Anita già la conoscevo, ho visto tutti i suoi film, ma volevo vedere come si sarebbe calata in questo personaggio e devo dire che ha restituito una grande credibilità. Con Margherita ho già lavorato e conosco molto bene le sue qualità, è come una pietra preziosa che arricchisce ogni pellicola e più rivedo il film, più noto piccoli particolari che solo una grande attrice può dare. Lucia Sardo si è presentata con una videocassetta dove faceva un ruolo da pazza e grazie alla quale ho capito che aveva una grande carica. Stefano Pesce l'ho visto nel film di Ligabue: mi piace come persona col suo carattere un po' introverso, ha un certo fascino ed è un bravo attore, visto con Anita mi sembravano la coppia ideale. Rachel Sueiro è una scoperta assoluta, tramite un mio carissimo amico che fa la spola tra Roma e Milano sono venuto a sapere dalla sua esistenza. Le ho fatto fare una scena del film e ho notato una grande carica positiva oltre al fatto che veniva bene fotograficamente. Max Amato viene dal teatro ed è molto bravo. Antonio Catania non ha bisogno di presentazioni e io lo adoro. Sergio Graziani che fa la parte di mio padre, con la sua interpretazione molto teatrale ha dato un senso di autorevolezza a tutto il film. Avevo paura di non riuscire a trovare un attore giusto per la sua parte e invece...
Nel film muovi una critica all'analisi piuttosto sottile, un'invettiva gridata da un Fabio Traversa che si pone come un espediente esterno alla vicenda. Come ti poni nei confronti della psicanalisi in genere? Si parte da una situazione estrema che mi fa comodo per far partire un plot, ma non direi che sono contro l'analisi. Sono invece contrario all'analisi per certe persone che ci vanno per motivi futili come chi ad esempio ha preso una batosta in amore, ed altri che delegano i loro problemi allo psicanalista solo per sollevarsi o per dare più importanza al problema stesso, in questi casi mi pongo in modo molto critico.
Sembri tuttavia criticare una precisa categoria di psicanalisti, come nel caso dell Dott. Tondero, non è vero? Vulman Tondero, è un nome inventato, ma è vero che esistono alcune targhette professionali dove capita di leggere di tutto anche "parcheggio gratuito", capisci allora che non posso non diventare critico: sembra uno psicanalista da tv privata. Assistiamo anche a questo tipo di degenerazioni.
Quando si parla di psicanalisi e di medicinali tu metti in gioco te stesso, quanto c'è di Carlo Verdone in Gegè e quanto dei personaggi del passato? Gegè assomiglia molto al personaggio di Maledetto il giorno che ti ho incontrato. Come in quel film mi sono liberato, mi sono raccontato; non voglio dire che sia come una terapia ma mi è servito per sfatare alcuni problemi che mi tormentavano. Per quanto riguarda la mia sacchetta dei medicinali, devo dire che è sempre più scarna per fortuna. Ricordo una volta a Heathrow quando mi si è rotto il sacchetto della Magnesia e dovevo dimostrare alla polizia di frontiera che non era cocaina facendola sciogliere sulla lingua. Devo dire che sono molto cambiato, ho raggiunto una maggiore serenità. Oggi mi metto a tavolino e scrivo e quel che viene viene, eravamo felici durante le sedute di sceneggiatura.
Come sono i tuoi rapporti con i colleghi, hai qualche regista che ti è più amico di altri? Il cinema in Italia è fatto in un modo strano, non trovo che ci siano molti legami tra colleghi. Frequento registi più maturi, ma i miei coetanei no. Una volta Benigni era una persona estremamente cordiale, è sempre stato un po' sfuggente ma ci si parlava, infondo è uno che è venuto fuori dal teatro di cabaret, come tutti noi del resto. Oggi è diventato qualcosa di inarrivabile... Trovo più amicizia in Gillo Pontecorvo, in Montaldo, in Scola. Stimo molto Virzì, anche Rubini, ma sembra che ognuno di loro abbia il suo circolo.
Il finale del film sembra piuttosto sofferto, quanto lavoro ha richiesto la sua stesura? Moltissimo. Il film sarebbe potuto finire con la fotografia, ma mi piaceva vedere che tutto riprende e continua. Una nuova speranza, un'immagine positiva della coppia, io che prende l'aereo e vado da mio figlio, volevo un finale che desse speranza.
Il film si apre e si chiude con la morte di una persona, c'è un significato simbolico in questo? È vero che l'attrice che interpretava la psicanalista è morta davvero sul set? La morte appare molto spesso nei miei film, ma non c'è nessun significato simbolico, sono stati semplicemente degli escamotàge narrativi, per dare un inizio e una fine alla vicenda. Per quanto riguarda la signora Ida, è entrata in uno stato di morte apparente mentre facevamo la scena. Io le ho detto di tenere gli occhi chiusi e di controllare il respiro, ad un certo punto Margherita dice: "guardate che non respira più!". Per noi la signora era veramente morta: gli Studios si sono fermati, uno le buttava l'acqua in faccia, un altro le bagnava i piedi, sono arrivati gli infermieri di Incantesimo, insomma un vero casino. Poi dopo un'ora mi richiama dall'ospedale viva e vegeta dicendomi indispettita: "scusi Verdone, un po' di professionalità. Lei non mi ha forse chiesto di morire? Io sono morta. Adesso mi trovo i vestiti tagliati per farmi l'elettrocardiogramma. È una cosa poco seria".
Quanto conta la religione, così presente in ogni tuoi film, nei tuoi processi creativi? Io vengo da una famiglia molto cattolica. Sono stato lupetto, ho frequentato l'oratorio. Forse tutto questo siproietta nei miei film, c'è sempre una chiesa, un personaggio che prega, è vero. È la filosofia cattolica romana che fa parte della mia educazione, della mia infanzia. Io mi considero un cattolico, forse non un buon praticante, ma un cattolico.
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