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Intervista al regista
di “La lettera”: Luciano Cannito |
LA
PASSIONE IN OGNI CAMPO |
Attore, coreografo,
regista teatrale e infine approda al cinema |
Non
chiamatelo solo regista, perché la carriera, di Luciano Cannito
tocca molti ambiti nel mondo dello spettacolo. Il suo talento e le sue
ambizioni sono riuscite ad approdare nei teatri di tutto il mondo e tra
le molte esperienze non poteva mancare anche quella del cinema. Dopo un
anno di preparazione tecnica, è giunto finalmente alla realizzazione
del suo primo film, “La lettera” e questa è soltanto
la punta dell’iceberg. Con un budget di soli 4 miliardi delle vecchie
lire e sei settimane di lavoro è riuscito letteralmente a ricreare:
la tormentata vita della protagonista, Vittoria Belvedere, e il difficile
tema della pena di morte visto però, con gli occhi dei bambini.
Qual è stato il percorso che ha seguito per arrivare alla regia
cinematografica?
Ho lavorato moltissimo in teatro, nel mondo della danza, raccontando storie
attraverso immagini. Il cinema fa esattamente la stessa cosa, per cui
il passaggio non è stato molto difficile. La struttura, di entrambi,
è esattamente la stessa. Quando sei in teatro operi su una scatola
in cui vi è il primo atto e le varie scene si muovono all’interno;
nel cinema ve ne sono molte di più però, c’è:
uno scenografo che si occupa di una determinata funzione, un direttore
della fotografia che mette le luci in una certa maniera e attori che devono
interpretare nel modo in cui tu li dirigi e quindi è esattamente
lo stesso processo.
Essendo questo, il suo primo film, su che basi ha affrontato
questa avventura?
Ho studiato per un anno, circa, le tecniche di ripresa: pellicole, le
ottiche varie, le profondità, ecc... Ma se hai le idee molto chiare,
parli con il direttore della fotografia, e gli spieghi l’inquadratura,
alla fine lui ha le capacità per realizzarla. L’importante,
non soltanto nel cinema e nel teatro ma anche nella vita, è capire
cosa vuoi e se lo sai, ti muovi per andare in quella direzione.
Nel film si viene colpiti dal grande interesse, che hanno i
bambini verso George Middletown, la persona condannata a morte. Oggi,
secondo lei, c’è una maggiore sensibilità nei confronti
di questi problemi?
Penso che stia succedendo qualcosa di molto strano, ci sono dei flussi
di tendenza e di presa di coscienza delle notizie intelligenti, che arrivano
alle persone, al di là di tanta informazione spazzatura e danno
possibilità di scegliere. Gli individui che hanno una sensibilità
speciale e sviluppata, riescono a capire cos’è giusto e cosa
non lo è e anche se siamo martellati dalla televisione e stiamo
diventando come il “Grande Fratello”, tantissime persone stanno
sviluppando una maggiore coscienza verso queste problematiche. Per i bambini
poi, è molto più semplice perché questa dote l’hanno
innata. La mente dei giovani, non è come una scatola chiusa, con
cibi precotti messi dentro, è aperta ad ogni esperienza. Quando
una maestra come Margherita, mette i propri alunni, di fronte un problema
così grande, questi hanno un atteggiamento spontaneo e sincero,
e cercano di aiutare una persona che soffre.
In Italia la pena capitale non è in vigore e le persone
la vivono con un certo distacco. Secondo lei, potrebbe essere una risposta
possibile quando accadono episodi eclatanti di violenza?
La pena di morte è un problema grosso e sa di medioevo: se io penso
che sia sbagliato togliere la vita di un’altra persona e io Stato
ti uccido, commetto un omicidio . C’è qualcosa che non quadra
dal punto di vista etico-morale e c’è anche il problema di
giustizia, da quando è stato sviluppato l’analisi del Dna,
si è scoperto che il 40% delle persone condannate a morte erano
innocenti. Questo ci dovrebbe far riflettere su quanto sia errato arrogarsi
il diritto di togliere la vita di una persona; cioè il principio
dell’occhio per occhio, dente per dente, non ha mai portato da nessuna
parte. Se prendiamo il problema degli arabi e dei palestinesi, quasi ogni
famiglia, di entrambe le parti, ha un morto da piangere, finché
non ci sarà qualcuno che inizia a perdonare, questa faida non avrà
fine. Tornando al film: i bambini non hanno il senso del rancore e anche
quando litigano dopo cinque minuti, vogliono fare pace e sono quindi da
prendere come esempio.
I bambini
del sud hanno delle capacità diverse di capire certe cose?
Probabilmente si. Tanti di questi bambini, vivono un po’ distanti
dai tantissimi condizionamenti che la società del consumismo mette
in atto in tutto il mondo. Qualche regione del mediterraneo, conserva
ancora delle identità particolari, che in tanti altri luoghi sono
andate perse. Ho cominciato a fare dei provini per trovare bambini per
un nuovo film a Roma. Dopo due settimane di ricerca, mi sono trasferito
a Reggio Calabria, perché non riuscivo a trovare dei protagonisti
che mi dessero il senso di quello che volevo raccontare e qui ho fatto
cinquemila provini, ma alla fine ho trovato le facce giuste e lo spirito
che cercavo era proprio quello lì. Ci sono dei posti che hanno
sicuramente minor benessere, ma hanno mantenuto intatto qualcosa di vero,
di grande.
Come è ricaduta la scelta su Vittoria Belvedere come
protagonista?
Volevo rappresentare una donna sofisticata milanese, che avesse vissuto
un grosso trauma, e che per tale ragione andasse a vivere in un paesino,
trasformandosi. Lei aveva le caratteristiche giuste e mi è sembrata
molto vicina al personaggio del film. Anche perché proviene da
una famiglia popolare, il padre è muratore e la madre è
casalinga ed ha avuto un’infanzia semplice, in più i suoi
genitori sono calabresi e quindi lei sa capire la mentalità e la
cultura di quella terra. Inoltre sul set è molto professionale,
puntuale e sempre preparatissima.
Vederla al cinema, dopo tanta televisione, è una scoperta?
Si, tantissime persone che l’hanno vista dicono che è splendida,
una delle sue migliore interpretazioni in assoluto. Degli amici americani
mi hanno chiesto dove avessi trovato questa attrice meravigliosa, perché
non la conoscevano. Chi l’aveva vista sul piccolo schermo, si aspettava
la Belvedere delle fiction, ma lei invece, li ha sorpresi perché,
essendo una grande attrice, è riuscita a cambiare. È stata
una scommessa che ho fatto e penso di averla vinta alla grande.
I suoi prossimi impegni, c’è sempre il cinema?
Sto lavorando a tre progetti di film, a tre sceneggiature. Mi sono trovato
talmente bene in questo nuovo ruolo, tanto è vero che il direttore
della fotografia continuava a dirmi: “Sembra che stai girando la
tua decima pellicola e non la prima”. Dopo l’esperienza nei
teatri, come il Metropolitan di New York, in cui hai 120 persone in scena,
stare sul set di un film, è un lavoro molto più tranquillo.
Il cinema è un linguaggio affascinante; quando passi al montaggio
sei in grado di far vedere al pubblico, quello che vuoi che loro guardino
e li conduci per mano ed è interessante riuscire a descrivere ciò
che senti dentro, proprio come fa lo scrittore di un libro.
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Lettera
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