di Francesco Bonazzi, Peter Gomez, Marco Lillo
Un rapporto scritto da Pio Pompa per il generale, all'epoca numero due del Cesis. Ecco la vera storia della prima manovra organizzata dai servizi segreti contro i vertici del centrosinistra
Nicolò Pollari
Da quasi sei anni Nicolò Pollari, prima al Cesis e poi come direttore del Sismi, ha favorito assieme ad alcuni dei suoi collaboratori operazioni destinate a screditare i leader del centrosinistra. Prima ancora del dossier contro Romano Prodi diffuso da Pio Pompa per depistare le indagini sul sequestro Abu Omar, prima ancora delle misteriose incursioni nell'anagrafe tributaria, 'L'espresso' è in grado di rivelare un importante ruolo di Pollari e Pompa nel caso Telekom Serbia. Già nel 2001, quando il generale era il numero due del Cesis, cioè di un organo tecnico-consultivo con semplice ruolo di cordinamento tra governo e 007, e Pompa era solo un consulente presentatogli "da don Verzè", il duo preparava e distribuiva informative su quello che sarebbe diventato uno degli scandali politico-mediatici più maleodoranti degli anni a seguire. Una manovra cavalcata dal centrodestra negli anni chiave del governo Berlusconi.

A rivelarlo sono le carte, fin qui segrete, dell'inchiesta torinese sull'affaire Telekom. Un'indagine condotta dal procuratore Marcello Maddalena e dal suo aggiunto Bruno Tinti che ha smontato documentalmente la tesi secondo cui l'acquisizione della compagnia telefonica serba da parte di Telecom (non ancora privatizzata) servì per creare, nel 1997, fondi neri. E ha dimostrato come le accuse di tangenti, lanciate contro Romano Prodi, Piero Fassino e Lamberto Dini dall'ex uomo delle pulizie all'ortomercato di Brescia, Igor Marini, fossero solo calunnie. Un'inchiesta che riletta oggi, a tre anni di distanza, ci consegna uno spaccato inedito sul modo di fare 'informazione' del servizio diretto da Pollari. E che con un po' più di fortuna avrebbe potuto addirittura 'disarticolare' (per usare un termine caro al Sismi) già nel 2003 quell'ufficio coperto di via Nazionale 230 a Roma, dal quale Pompa compilava falsi dossier e smistava notizie avariate ai giornalisti. Ma i magistrati torinesi, forse già annichiliti dalla montagna di bufale che stavano scoprendo sul caso Telekom, non potevano immaginare a che livello era sceso un altro pezzo importante delle istituzioni, ovvero il servizio segreto militare. Che pure interpellano al massimo livello, interrogando Pollari il primo luglio 2004.

Ora, per competenza territoriale, i documenti sulla strana coppia Pollari-Pompa sono sulle scrivanie dei pm di Roma che hanno chiesto il processo contro altri tre depistatori (uno dei quali, Antonio Volpe, legato a doppio filo al Sismi) e i faldoni stanno per arrivare sul tavolo dei magistrati milanesi. All'ombra della Madonnina prosegue infatti l'inchiesta sull'ufficio di via Nazionale, dove Pompa, accusato di favoreggiamento nell'ambito dell'indagine sul sequestro dell'imam egiziano Abu Omar, conservava, accanto a fascicoli riguardanti magistrati e uomini di partito, anche appunti sulla "disarticolazione", "neutralizzazione" e "il ridimensionamento" dell'opposizione al governo Berlusconi. Tra questi, un dossier sul caso Telekom Serbia. Una montagna di robaccia che oggi magari può anche far sorridere, ma che ha comunque alimentato polveroni e campagne di stampa oggettivamente utili per inchiodare l'opposizione e allontanare l'attenzione dei cittadini da temi reali.

Ma cosa ha scoperto la Procura di Torino? Per capirlo bisogna fare un salto indietro di cinque anni e tornare alla primavera del 2001. La legislatura sta finendo, mancano 48 ore allo scioglimento delle Camere. In Italia si parla solo delle prossime elezioni. Il centrodestra è molto avanti nei sondaggi, ma attacca ugualmente a testa bassa e l'Ulivo è sulla difensiva. Tra i capitoli spinosi c'è anche la questione Telekom, sollevata a dicembre del 2000 da un articolo de 'L'espresso' nel quale si parte dalla spesante svalutazione della partecipazione Telecom nella compagnia serba per arrivare a sottolineare come l'operazione abbia dato respiro alle esauste casse di Slobodan Milosevic. L'inchiesta viene ripresa e rilanciata in grande stile da 'Repubblica' nel febbraio 2001 con un'accusa inedita e pesante: "Telekom Serbia, ecco le tangenti di Milosevic". Il 7 marzo seguente, il deputato di An Italo Bocchino annuncia alla stampa un'interrogazione parlamentare a risposta immediata. Nel documento, definito "fantomatico" dai magistrati torinesi perché in realtà mai presentato alle Camere, Bocchino lancia accuse pesanti: contro Prodi che avrebbe avallato l'operazione "con ambienti massonici italiani" e contro la Stet-Telecom che avrebbe evaso il fisco grazie alla rete di controllate estere. Poi Bocchino aggiunge un carico da novanta: secondo lui i servizi hanno seguito passo passo la compravendita, tanto che "il reparto Sismi guidato da Manenti (il colonnello Alberto Manenti attuale direttore dell'ottava divisione, ndr) fece più di una relazione, chiedendo dettagli ulteriori: successivamente fu inviata un'informativa al Cesis e, infine, dopo qualche mese fu resa una nota di compiacimento, con ordine comunque di non interessarsi più della vicenda, in quanto già nota". L'8 marzo 'Il Giornale' dà spazio alla notizia, ma omette di citare il Sismi e Manenti. La cosa sembra morire lì. Solo in apparenza, però. Come vedremo, la "fantomatica" interrogazione è il primo atto della banda dei depistatori sulla quale ha indagato Torino.
Passano due anni. Si arriva al luglio del 2003. Igor Marini, dopo aver sparso veleni e calunnie di ogni tipo e aver trovato parlamentari del centrodestra e tv disposti a rilanciarli a reti unificate, varca le porte del carcere torinese delle Vallette perché accusato di truffa e riciclaggio. Segue un'estate in cui parte una gara a chi la spara più grossa. I nomi in codice usati dal 'Conte Igor' per alludere ai big dell'Ulivo "destinatari di tangenti Telekom" sono 'Ranoc' (Dini), 'Cicogna' (Fassino) e 'Mortad' (Prodi). Sembrano usciti da un parodia, ma la commissione parlamentare sul caso Telekom ci si dedica con passione.

Il 16 luglio 2003, in seduta segreta, l'inquirente presieduta dall'avvocato catanese Enzo Trantino (An), ascolta Manenti. Trantino fa domande su domande. Elenca i nomi dei mediatori della falsa tangente già tirati in ballo da Marini e da una serie di informative anonime. Poi passa i quesiti basati sull'interrogazione mai presentata dal collega Bocchino. Ma l'ufficiale non gli dà soddisfazione. Giura che di quella storia non sa nulla, anche perché all'epoca dell'affare Telekom si occupava d'altro. Racconta che in un solo caso gli era stato dato in mano, perché esprimesse una valutazione, un appunto e qualche ritaglio di giornale. Manenti studiò l'incartamento e ritenne il comportamento dei personaggi coinvolti nell'operazione Telekom Serbia non rilevanti. Insomma, secondo lui non c'era nulla su cui valesse la pena d'indagare. Ma, nel caso i commissari avessero voluto togliersi altre curiosità, Manenti suggerisce di sentire i suoi superiori dell'epoca: l'ex direttore del servizio, ammiraglio Gianfranco Battelli, e il suo ex capo, l'ammiraglio Giuseppe Grignolo, nel frattempo volato a Washington come capocentro.

In commissione è Carlo Taormina, avvocato di Forza Italia, a chiedere a gran voce la loro audizione. Gli altri sono tiepidi e i giornali ignorano, o quasi, il 'c té' servizi. Solo 'La Padania', il 18 luglio, riprende tutta la faccenda e pubblica quasi integralmente la fantomatica interrogazione di Bocchino.

Passano altri 12 mesi. Questa volta la scena si sposta a Torino. È il primo luglio 2004. A palazzo di Giustizia, Manenti compare al cospetto di Maddalena e Tinti. I due hanno già smascherato Marini e lo hanno fatto arrestare per calunnia il 16 dicembre 2003. Sempre sul finire del 2003, hanno anche fatto bloccare dalla Finanza il massone irregolare Antonio Volpe, sedicente collaboratore del Sismi, mentre tentava di consegnare al commissario di Forza Italia, Alfredo Vito, ulteriori dossier su Telekom Serbia. Volpe, che il 31 luglio 2003 aveva già recapitato un altro bel pacco di carte al presidente Trantino per rilanciare la morente pista Marini, è una vecchia conoscenza di polizia e carabinieri. Sul finire degli anni Novanta gli avevano trovato a casa elenchi di ufficiali e sottufficiali iscritti a un sedicente ordine cavalleresco. Tutta gente che lui era in grado realmente di raccomandare. Anche nei servizi segreti.

Manenti insomma sa che i due pm non sono gente da prendere sotto gamba. Con loro comunque si lamenta. Spiega che la convocazione della Commissione lo ha messo in difficoltà. Lui ha sempre lavorato sotto copertura, ma dopo quell'audizione è stato bruciato. E oltretutto ha dovuto raccontare a suo figlio quello che non gli aveva mai detto: "Non sono un uomo d'affari, ma un agente segreto". Dopo questa premessa si entra nel vivo. Che cosa sa Manenti di Telekom Serbia? Niente, o quasi, ripete l'ufficiale, "io non ero responsabile dell'area dei Balcani". Poi conferma che comunque lui un appunto sulla vicenda l'ha ricevuto "dalla struttura". L'ha esaminato e ha valutato il comportamento di Telecom "non negativamente". Tinti e Maddalena gli chiedono: "Chi gliel'ha dato?". Manenti non vuole rispondere, si appella a un articolo della legge istitutiva dei servizi che, a suo dire, gli impone di coprire le fonti. Lui però non è un pubblico ufficiale. Il segreto non lo può invocare. Il funzionario dei servizi telefona allora al suo direttore, il generale Pollari subentrato all'ammiraglio Battelli già nell'ottobre del 2001, per chiedere lumi. Chiusa la telefonata, si siede, tira un sospiro e dice: "Mi ha dato tutto Pollari".
Il generale viene immediatamente convocato. Sale su un aereo e da Roma e piomba a palazzo di Giustizia. Sembra cordiale e rilassato, garantisce massima collaborazione, ma in realtà è in grande ambasce, come rivela il verbale. È vero, spiega, che è stato lui a consegnare a Manenti, già nel 2001, un dossier Telekom Serbia. Dentro però non c'era niente di speciale: era composto più che altro da articoli di giornale e documenti tratti da fonti aperte, assicura Pollari. I magistrati vogliono però capire perché quelle carte siano state date proprio a Manenti e non a un altro ufficiale, visto che all'epoca dei fatti Pollari non era ancora al Sismi, ma sedeva nella segreteria del Cesis. Il generale azzarda una spiegazione. Dice di averlo fatto perché il nome di Manenti compariva nell'interrogazione parlamentare presentata da Bocchino. Tutto chiaro, insomma? No, perché di fatto l'interrogazione, non essendo mai stata depositata, non esiste. Gli stessi pm l'hanno cercata per settimane, ma non l'hanno trovata (alla fine sarà proprio Manenti a inviarne una copia in Procura via fax). Tinti e Maddalena, allora, insistono. Vogliono sapere chi ha dato il documento a Pollari. "A darmelo insieme a tutto l'incartamento è stato un tale Pio Pompa", rivela il direttore del Sismi che poi aggiunge come Pompa gli sia stato presentato da don Verzè, il prete fondatore dell'ospedale San Raffaele di Milano, fino dagli anni '60 in strettissimi rapporti di affari e amicizia con Silvio Berlusconi. Pompa, spiega ancora Pollari, è un "consulente" super-esperto d'informatica, e ha ricevuto la fantomatica interrogazione di Bocchino da un giornalista della 'Padania'. Passa qualche giorno e anche il cronista della 'Padania', Mauro Bottarelli, viene ascoltato. La sua deposizione, riletta a posteriori, fa crollare miseramente tutto il teorema Pollari. Bottarelli non ha infatti difficoltà a dire di aver avuto in mano una copia dell'interrogazione, ma aggiunge di averla ricevuta da una segretaria della commissione Telekom nel luglio 2003, subito dopo la deposizione di Manenti.

Insomma, in questa storia, qualcuno mente. Pollari nel 2001 non può aver passato a Manenti gli incartamenti di Pompa su Telekom perché 'La Padania' aveva pubblicato il suo nome. Il motivo per cui l'ha fatto deve essere un'altro. Quale? Tinti e Maddalena cominciamo a pensare che Bocchino nell'interrogazione mai presentata del 2001, possa aver scritto qualcosa di vero in mezzo a tanti errori. Forse, come sosteneva Bocchino, davvero il Cesis (Pollari) e il Sismi (Manenti) si erano occupati, già prima del 2001, della vicenda. Bisognerebbe ascoltare Pompa, ma l'interrogatorio non viene messo in calendario perché, nel frattempo, l'indagine sulla calunnia è trasferita dalla Cassazione a Roma.

C'è il tempo però per sentire come teste Bocchino. Il parlamentare per tre anni ha sostenuto che parte dei soldi dell'affaire Telekom sono finiti ai leader del centrosinistra. La Procura di Torino ha invece scoperto che a partire dal giugno 2001 circa 4 miliardi di lire, provenienti da una delle tante intermediazioni legate alla compravendita, sono transitati per una società di San Marino e da questa prestati a Bocchino e alla moglie come finanziamento delle loro attività imprenditoriali. Bocchino ammette di aver ricevuto il denaro, ma giura di non aver mai immaginato che si trattasse dei soldi di Telekom. Poi risponde alle domande sulla sua interrogazione, ritenuta dai pm l'inizio dell'intero depistaggio. Non ricorda molto, nemmeno esattamente perché non risulti depositata. Alla fine però lascia chiaramente intendere che a passargli le informazioni è stato Marco Rizzo: un amico del depistatore Volpe, ma anche un uomo ben introdotto al Sismi, tanto da conoscere i nomi di copertura di vari 007 e a definirsi, in un'intercettazione, un agente segreto. Un po' troppo, per un servizio che non ne sapeva niente.

Sismi in affitto
da don Verzè

"Pio Pompa? Me lo aveva presentato don Luigi Verzè". Ai magistrati torinesi che indagavano su Telekom Serbia, Nicolò Pollari ha raccontato questa storia. Portando in qualche modo alla luce un legame forse insolito, ovvero quello tra la Grande Spia e il Manager di Dio, ma indubbiamente solido.

Tutto inizia da un particolare curioso, che riguarda Pompa ed Emilio Fede. Una sera del 2003, in un albergone di Segrate, il dominus dell'ufficio coperto di via Nazionale 230 a Roma, vede entrare nella hall il direttore del Tg4. Si stacca da un gruppetto di uomini incravattati e lo avvicina presentandosi come un collaboratore di Pollari. Con scarsa discrezione, Pompa spiega che il capo del Sismi è lì perché ha portato uno stretto congiunto da don Verzè al San Raffaele di Milano. Dopo qualche battuta, Pompa, ansioso di aggiungere un direttore di tiggì al proprio parco-giornalisti, si congeda mettendo in mano a Fede un pezzetto di carta a quadretti con su scritto il proprio nome e un numero di cellulare. Fede intasca e il giorno dopo cestina. Interpellato da 'L'espresso' ad agosto scorso, Fede ha spiegato: "Per via dei modi e del fisico non esattamente alla James Bond, ma anche pensando che uno 007 non potesse davvero chiamarsi Pio Pompa, ho pensato a uno scherzo". E per lui tutto finisce lì. Pompa, invece, accompagnerà Pollari a Milano da don Verzè tante altre volte. Ma forse, ormai, Pollari e don Verzè non avevano più bisogno della cerimoniosa presenza di Pompa. Perché, secondo quanto risulta a 'L'espresso', il Sismi ha preso in affitto da almeno tre anni una villa di don Verzè che si trova a Mostacciano, periferia sud di Roma. Si tratta di un edificio con un ampio parco, vistose antenne e spazio per far atterrare un elicottero (don Verzè ama volare). Anche la storia di questa villa è curiosa. Quando nel 2001 don Verzè vende il San Raffaele di Mostacciano alla famiglia Angelucci per 270 miliardi di lire, questi provano a comprarla: per metterci la sede della fondazione intitolata a Silvana Paolini (la defunta moglie di Tonino Angelucci). Ma il sacerdote rifiuta, anche perché si sente quasi espropriato. Non va meglio, pochi mesi dopo, al ministro Umberto Veronesi che rileva l'ospedale per 320 miliardi. Anche a lui non viene venduta la villa di via Elio Chianesi. Ma un altro pezzo di Stato, più segreto del ministero della Sanità, è comunque riuscito a metterci le mani sopra. Anche se solo in affitto.

La madre
di tutti i veleni

10 giugno 1997 Il gruppo Telecom Italia, acquista per 878 miliardi di lire il 29 per cento di Telekom Serbia. Due mediatori, Gianni Vitali e il serbo Dojicilo Maslovaric, incassano 36 miliardi. Vitali li affida a Loris Bassini.

12 dicembre 2000 'L'espresso' pubblica l'inchiesta 'Telecom, pasticcio in salsa serba' che solleva i primi dubbi di opportunità politica.

16 febbraio 2001 'La Repubblica' pubblica in prima pagina l'inchiesta: 'Telecom in Serbia, le tangenti di Milosevic'. Scoppia il caso Telekom.

7 marzo 2001 L'Ansa dà notizia di un'interrogazione di Italo Bocchino e Maurizio Gasparri che solleva dubbi sulle acquisizioni di Telecom, compresa quella in Serbia. L'interrogazione non sarà mai presentata. 8 marzo 2001 'Il Giornale' riprende l'interrogazione fantasma e scrive: "I sospetti chiamano in causa la stessa presidenza del Consiglio per via dell'eventuale interessamento del Sismi. Secondo i due deputati di An, vi sarebbe più di una relazione sulla trattativa Telekom: un'informativa sarebbe anche finita al Cesis", dove all'epoca c'era Pollari.

23 luglio 2001 Si discute in Parlamento dell'istituzione di una commissione di indagine. Il relatore di An è Italo Bocchino.

Giugno-dicembre 2001 Due società vicine alla famiglia Bocchino ricevono da Loris Bassini 4 miliardi di lire. Una parte non è stata mai restituita.

1 maggio 2002 Nasce la Commissione parlamentare di inchiesta. La presiede Enzo Trantino di An, ne fa parte Bocchino. 22 luglio 2002 La moglie di Vitali presenta una denuncia contro Bassini. Lo accusa di avergli 'soffiato' i miliardi della mediazione Telekom che gli erano stati affidati in gestione.

16 luglio 2003 La commissione sente Alberto Manenti, il colonnello del Sismi citato nell'interrogazione 'fantasma' come l'uomo del Sismi che aveva studiato il caso Telekom. Manenti resta sul vago.

1 luglio 2004 La Procura di Torino risente Manenti che tira in ballo Pollari: fu lui a passarmi l'informazione su Telekom. Pollari vola a Torino e spiega: "La notizia veniva da Pio Pompa. Trasmisi tutto a Manenti perché il suo nome era citato nell'interrogazione riportata da 'La Padania'".

Luglio 2004 La Procura accerta che 'La Padania' ha pubblicato il nome di Manenti nel 2003. Non nel 2001 come dice Pollari.

Brigata Cossiga

Loro, gli uomini del Sismi sotto inchiesta che Francesco Cossiga difende da mesi, lo chiamano affettuosamente così: 'l'Emerito'. E la mattina di domenica 29 ottobre, sotto la casa romana dell'ex presidente della Repubblica si contavano ben 18 servitori dello Stato. Un simile 'nucleo interforze' non poteva certo passare inosservato in quella viuzza del quartiere Prati dove, tra l'altro, c'è una famosa pasticceria della capitale. C'erano carabinieri in divisa, poliziotti in divisa, carabinieri in borghese con auricolare e uomini del Sismi in giacca e cravatta. Poi, alle 10 e 25, da casa Cossiga scende Giancarlo Elia Valori, gran capo degli industriali del Lazio. La sua colazione in pasticceria viene interrotta continuamente dalla processione dei servitori dello Stato che gli rendono omaggio. Ma Valori non se ne duole e ha un sorriso per tutti.