VetrinaCinema
a cura di Alessio Sperati
   


"La finestra di fronte" tra ragione...

 

La voce di Giorgia ci seduce, dolce e struggente. Le luci si accendono nella sala ed un applauso fragoroso e riconoscente saluta e ringrazia un'emozione inaspettatamente regalata. Non accade spesso che una platea composta da tecnici del settore, da giornalisti e critici cinematografici si lasci andare ad una pubblica approvazione. Ma Ozpetek ti conquista. Generosamente si è donato senza riserve. Generosamente viene ricompensato. Non si può proprio essere tirchi con chi è disposto a mettersi completamente in gioco. Ora arriva il momento più eccitante, liberatorio. Parlare, scrivere di ciò che si è visto e sentito. Ma è necessario lasciare scorrere l'emozione ed il turbamento per alcuni giorni, per tentare di riacquistare la lucidità un po' fredda e chirurgica di colui che il film dovrebbe riuscire a scomporlo e ricomporlo con assoluta facilità. Guardare con l'occhio del critico. Individuare carrelli, piani sequenze, errori, riferimenti cinematografici e stilistici. Ma non è facile. Non lo è assolutamente per un film come questo. Veramente non lo è per tutti i film di Ozpetek. La corsa disperata di Giovanna Mezzogiorno lungo le scale, nel tentativo di rivedere per l'ultima volta l'uomo che ama, sarà anche un chiaro omaggio a Scarpette Rosse, ma diviene assolutamente secondario, se non superfluo, sovrastato dal coinvolgimento che si prova. Quel primo piano sull'impronta di una mano insanguinata sarà anche una ingenuità stilistica, un'escamotage da manualetto di regia, ma in esso è racchiusa tutta l'essenza della storia che verrà. Perfetta sintesi visiva di quel multiforme ed armonico insieme di temi che compongono la pellicola. Non c'è proprio nulla da fare. Alcuni film non sono sezionabili. Non si può porre un'emozione di appartenenza universale sotto una lente, pretendendo di ragionare attraverso degli schemi pre-definiti. La razionalità. Che concetto, che stile di vita utile e pericoloso allo stesso tempo. Da una parte ti permette di rimanere saldamente legato al concreto, all'essenziale. Dall'altra rischia di privarci di un universo sensoriale. Di quell'orecchio interno sensibile alle onde sonore emesse dall'emozione. Ma questa volta il rischio non si corre. Non si può rimanere freddi e professionalmente distanti nei confronti di un uomo che ti osserva con uno sguardo gioiosamente soddisfatto, in grado di raccontare storie profonde e normalissime. Di svelare peccati e limiti con una leggerezza e l'ottimismo di chi è assolutamente convinto che i muri possano parlare e che l'essenza della vita si possa assaporare nel piacere di cucinare e giocare a carte con gli amici. Non si può non rimanere coinvolti da una musica che passa dai ritmi orientali al calore latino. Da una famiglia cinematografica composta da Romoli e Tilde Corsi. Da quegli attori che lo hanno seguito fedelmente dal quartiere Ostiense de Le Fate Ignoranti fino al 'ghetto', nel cuore di una città che lo ha accolto e da cui è amata, omaggiata. Dalla scomparsa di Massimo Girotti, vissuta con un pudore che può sembrare quasi dimenticanza in un ambiente abituato ad enfatizzare ogni cosa. L'emozione scorre tra gli attori. In Giovanna Mezzogiorno che, privata di una certa scolarizzazione teatrale, degli urli mucciniani volutamente forzati e portati all'eccesso, ne esce esaltata non solo come attrice, ma anche come donna. Nella voce un po' incrinata e stentata di Raul Bova, certo abituato alle conferenze stampa, ma non a denudarsi dagli abiti rassicuranti della celebrità, scoprendo i rischi e le difficoltà di mettere a disposizione la propria vita. Ad Ozpetek non interessa un volto in quanto tale, se non per quello che i suoi tratti sono disposti a svelare. Certo si potrebbe discutere sulla furba maestria da sceneggiatore incallito di Romoli. Su quelle famose 120 pagine in perfetto stile americano in cui si dovrebbero distribuire i momenti fondamentali di una vicenda per incatenare l'attenzione dell'ingenuo spettatore. Ma tutto diventa cattedratico e perde d'importanza di fronte a queste vite che reclamano la nostra attenzione. Dunque che il critico, con tutta l'autocompiaciuta cultura di cui può essere capace, lasci il posto al mangiatore di film, come si definiva Ungari. All'uomo disposto a conoscere un altro uomo che vive raccontando la vita.

 

 

...e sentimento


I tortuosi vicoli del 'ghetto' di Roma sprofondati nel buio e nel silenzio del sonno. Da lontano lo scalpiccio di una corsa affannata. Un giovane uomo si ferma per pochi attimi. Si guarda in dietro indeciso sulla direzione da prendere. Sulla scelta che condizionerà molte vite. Scegliere tra l'amore o la responsabilità. Tra il vivere di rimpianti o di rimorsi. Ma c'è poco tempo. La corsa continua. Unica traccia di quell'indecisione l'impronta di sangue lasciata dalla sua mano sul muro di una casa. Segno assorbito dalla pietra e cristallizzato all'interno di una memoria indelebile. E' il 16 ottobre del 1943 e qualche cosa di profondamente oscuro, che la folle corsa di una sola vita non potrà arginare totalmente, sta per accadere. Sono gocce d'emozione. Lente, delicate, quasi silenziose quelle create da Ozpetek ne La Finestra di fronte. Costanti battono, scalfiscono e corrodono, conquistando in modo implacabile e costante il nostro intimo. Emozioni nell'amore descritto e raccontato come sentimento universale, privo di sesso e tempo. Collocabile in qualsiasi luogo. Oltre gli anni. Tra il peccato deciso da una società che non accetta la diversità. In una vecchiaia fatta di follia per avervi rinunciato. L'amore immaginato al di là di una finestra. Spiato e fantasticato al buio di una cucina. Perché è molto più semplice desiderare che vivere. Unica immagine di un riflesso sognato, di una vita cui si vorrebbe appartenere. Via d'uscita per accettare un altro amore oramai stanco e logoro. Emozione nella casualità degli incontri che appaiono inevitabili. Magici ed imprevedibili nella loro capacità di cambiare il corso delle vite. Nel condurci al di fuori del buio. Nel renderci visibili a noi stessi, credendo di essere ancora in tempo. La nostalgica, ultima illusione creata da Massimo Girotti, interprete della dolcezza e della pesantezza dei ricordi che ci camminano accanto. Il regista de Le fate ignoranti mette in gioco tutta la sua sensibilità e ci regala, di nuovo, non una ma più vicende intrecciate carnalmente tra di loro. Tra ieri ed oggi, nell'esaltazione di una città, Roma, che mai viene raffigurata come una cartolina ma che, più che teatro, diventa parte fondamentale di tutta la vicenda. Attrice attiva parla a Giovanna tramite i fantasmi ricreati dalla mente delirante di Davide. Figure cadute in un passato di violenza e morte e che ora riprendono vita e forma tra quelle stesse strade, sessanta anni dopo, in un fluido montaggio emozionale tra passato e presente. L'uno fortemente nell'altro ed entrambi decisivi per il futuro. Tutto è possibile in una città costruita sui ricordi. In un luogo stretto e chiuso come il ghetto dove i muri e le case, se si cammina rispettosi del loro apparente silenzio, possono raccontarci storie. Di coloro che hanno amato, gioito, sofferto. Di minacciosi passi cadenzati. Di notti di morte e follia. Di tutti quelli che sono stati portati via e dei pochi che sono tornati. Perché le strade ed i muri hanno quell'anima grande pronta ad accogliere i frammenti più importanti delle nostre vite. Sfondo di un incontro casuale ma fondamentale, com'è tutto ciò che non è stato programmato. Davide e Giovanna. E nulla centra Lorenzo. Almeno non subito. Non necessariamente. Ferzan ci prende in giro. Gioca con noi con quell'allegra vitalità che lo caratterizza. Ci spiazza mano a mano che la vita del suo film prende forma. Ci convince che sia la passione che nasce tra Giovanna Mezzogiorno e Raul Bova a dover concentrare la nostra attenzione. Ma nulla è mai così scontato. Immediatamente arresta la corsa emotiva conducendoci nella giusta direzione. Ci afferra, ci spinge delicatamente per poi lasciarci camminare da soli. Non uno strattone, non una violenza. Mai si spezza il flusso emotivo così ben gestito da sentirlo come vita. Mai si è fuori dall'emozione. Dal percorso filmico che cancella quello reale. Ritorniamo in dietro e ricordiamo. Si incontrano e si scontrano immediatamente la Mezzogiorno e Girotti. Lo abbiamo visto, eravamo presenti, ma è come se non l'avessimo considerato fino in fondo. O forse è veramente bravo il regista a nascondere, tra le trame di un intreccio all'apparenza così naturale, il significato ultimo di questa vicenda. La possibilità di decidere. D'essere attivi all'interno della propria vita e di non rimanere a guardare come spettatori paganti ed insoddisfatti. Davide ci indica la via giusta per acquisire l'arte del creare non solamente dolci, ma di rimpastare tutta una vita. Attenzione, non si parla di una ricetta giusta ed infallibile, ma solo di trovare il coraggio di cambiare, accentandone tutti i rischi. Di portare il peso delle nostre decisioni anche quando queste sembrano costarci troppi rimpianti o rimorsi. Giovanna comincia a comprendere e noi con lei. Rinuncia alla passione per Lorenzo e se proprio non si condivide, si rispetta. Perché finalmente ha smesso di rimanere ferma a guardare gli altri vivere da una finestra. Alcuni potrebbero dire che è un film di perdenti.Immagine di vite mai realmente espresse. Che si sono rifiutate di esplodere nella ricerca della loro felicità. In realtà sono vite come le nostre. Vite che hanno compiuto delle scelte. Non trasportate da un ipotetico destino, ma realmente conquistate. Che hanno percorso una strada con la consapevolezza di non trovarvi, alla fine, la felicità assoluta. O che l'hanno rincorsa, afferrandola solo in parte. Ma tutto dipende dalle traverse che noi decidiamo d'imboccare. Davide, da uomo ebreo sceglie di abbandonare l'amore per correre ad avvisare i componenti della sua comunità. Giovanna rimane all'interno della sua realtà familiare, ma muta la sua vita lavorativa. Concretizza il sogno di divenire pasticciera, perché un vecchio le ha fatto comprendere che non è mai troppo tardi per conquistare ciò che si desidera. Almeno non lo è per lei. Uomini e donne che si evolvono nella convinzione che non si può solamente sognare di avere una vita migliore, ma si deve avere il coraggio di viverla. Un messaggio che il regista affida all'intensità di un uomo che proviene e vive nel passato per concedersi brevi e densi passaggi nel presente. E non è un caso. Perché i bisogni e la ricerca rimangono sempre gli stessi, ma anche gli ostacoli non sono certo mutati. Hanno cambiato forma, ma la loro essenza, quella forza opprimente e distruttiva rimane invariata. Il passato deve insegnare. E non solamente perché la storia, nella sua malvagità, non torni, ma perché si acquisisca la forza di procedere in avanti. Un messaggio universale ed assolutamente attuale in tempi in cui sembra ancora più difficile ed improbabile lottare per le proprie vite. In cui la storia sembra riproporci nuove guerre ed umanità schiacciate. In cui si ritorna ad avere drammaticamente timore del diverso, ammesso che non lo si sia sempre continuato a fare nel silenzio di una vergogna morale. In una sera d'estate, all'interno di una casa dalle finestre aperte, Giovanna e Davide ballano al ritmo di una musica latina. Intorno a loro si muovono figure invisibili. La donna non le percepisce. Assapora solo la dolce tranquillità del momento. L'uomo non solo le vede ma le riconosce. Una ad una. Sono i volti di una vita. L'importanza del ricordo. Gocce di un passato.

 

 

                                                                                                             Tiziana Morganti

 

 


Incontro con Ferzan Ozpetek

Recensione


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