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"La
finestra di fronte" tra ragione...
La
voce di Giorgia ci seduce, dolce e struggente. Le luci si accendono nella
sala ed un applauso fragoroso e riconoscente saluta e ringrazia un'emozione
inaspettatamente regalata. Non accade spesso che una platea composta da
tecnici del settore, da giornalisti e critici cinematografici si lasci
andare ad una pubblica approvazione. Ma Ozpetek ti conquista. Generosamente
si è donato senza riserve. Generosamente viene ricompensato. Non
si può proprio essere tirchi con chi è disposto a mettersi
completamente in gioco. Ora arriva il momento più eccitante, liberatorio.
Parlare, scrivere di ciò che si è visto e sentito. Ma è
necessario lasciare scorrere l'emozione ed il turbamento per alcuni giorni,
per tentare di riacquistare la lucidità un
po' fredda e chirurgica di colui che il film dovrebbe riuscire a scomporlo
e ricomporlo con assoluta facilità. Guardare con l'occhio del critico.
Individuare carrelli, piani sequenze, errori, riferimenti cinematografici
e stilistici. Ma non è facile. Non lo è assolutamente per
un film come questo. Veramente non lo è per tutti i film di Ozpetek.
La corsa disperata di Giovanna Mezzogiorno lungo le scale, nel tentativo
di rivedere per l'ultima volta l'uomo che ama, sarà anche un chiaro
omaggio a Scarpette Rosse, ma diviene assolutamente secondario, se non
superfluo, sovrastato dal coinvolgimento che si prova. Quel primo piano
sull'impronta di una mano insanguinata sarà anche una ingenuità
stilistica, un'escamotage da manualetto di regia, ma in esso è
racchiusa tutta l'essenza della storia che verrà. Perfetta sintesi
visiva di quel multiforme ed armonico insieme di temi che compongono la
pellicola. Non c'è proprio nulla da fare. Alcuni film non sono
sezionabili. Non si può porre un'emozione di appartenenza universale
sotto una lente, pretendendo di ragionare attraverso degli schemi pre-definiti.
La razionalità. Che concetto, che stile di vita utile e pericoloso
allo stesso tempo. Da una parte ti permette di rimanere saldamente legato
al concreto, all'essenziale. Dall'altra rischia di privarci di un universo
sensoriale. Di quell'orecchio interno sensibile alle onde sonore emesse
dall'emozione. Ma questa volta il rischio non si corre. Non si può
rimanere freddi e professionalmente distanti nei confronti di un uomo
che ti osserva con uno sguardo gioiosamente soddisfatto, in grado di raccontare
storie profonde e normalissime. Di svelare peccati e limiti con una leggerezza
e l'ottimismo di chi è assolutamente convinto che i muri possano
parlare e che l'essenza della vita si possa assaporare nel
piacere di cucinare e giocare a carte con gli amici. Non si può
non rimanere coinvolti da una musica che passa dai ritmi orientali al
calore latino. Da una famiglia cinematografica composta da Romoli e Tilde
Corsi. Da quegli attori che lo hanno seguito fedelmente dal quartiere
Ostiense de Le Fate Ignoranti fino al 'ghetto', nel cuore di una
città che lo ha accolto e da cui è amata, omaggiata. Dalla
scomparsa di Massimo Girotti, vissuta con un pudore che può sembrare
quasi dimenticanza in un ambiente abituato ad enfatizzare ogni cosa. L'emozione
scorre tra gli attori. In Giovanna Mezzogiorno che, privata di una certa
scolarizzazione teatrale, degli urli mucciniani volutamente forzati e
portati all'eccesso, ne esce esaltata non solo come attrice, ma anche
come donna. Nella voce un po' incrinata e stentata di Raul Bova, certo
abituato alle conferenze stampa, ma non a denudarsi dagli abiti rassicuranti
della celebrità, scoprendo i rischi e le difficoltà di mettere
a disposizione la propria vita. Ad Ozpetek non interessa un volto in quanto
tale, se non per quello che i suoi tratti sono disposti a svelare. Certo
si potrebbe discutere sulla furba maestria da sceneggiatore incallito
di Romoli. Su quelle famose 120 pagine in perfetto stile americano in
cui si dovrebbero distribuire i momenti fondamentali di una vicenda per
incatenare l'attenzione dell'ingenuo spettatore. Ma tutto diventa cattedratico
e perde d'importanza di fronte a queste vite che reclamano la nostra attenzione.
Dunque che il critico, con tutta l'autocompiaciuta cultura di cui può
essere capace, lasci il posto al mangiatore di film, come si definiva
Ungari. All'uomo disposto a conoscere un altro uomo che vive raccontando
la vita.
...e
sentimento
I tortuosi vicoli del 'ghetto' di Roma sprofondati nel buio e nel silenzio
del sonno. Da lontano lo scalpiccio di una corsa affannata. Un giovane
uomo si ferma per pochi attimi. Si guarda in dietro indeciso sulla direzione
da prendere. Sulla scelta che condizionerà molte vite. Scegliere
tra l'amore o la responsabilità. Tra il vivere di rimpianti o di
rimorsi. Ma c'è poco tempo. La corsa continua. Unica traccia di
quell'indecisione l'impronta di sangue lasciata dalla sua mano sul muro
di una casa. Segno assorbito dalla pietra e cristallizzato all'interno
di una memoria indelebile. E' il 16 ottobre del 1943 e qualche cosa di
profondamente oscuro, che la folle corsa di una sola vita non potrà
arginare totalmente, sta per accadere. Sono gocce d'emozione. Lente, delicate,
quasi silenziose quelle create da Ozpetek ne La Finestra di fronte.
Costanti battono, scalfiscono e corrodono, conquistando in modo implacabile
e costante il nostro intimo.
Emozioni nell'amore descritto e raccontato come sentimento universale,
privo di sesso e tempo. Collocabile in qualsiasi luogo. Oltre gli anni.
Tra il peccato deciso da una società che non accetta la diversità.
In una vecchiaia fatta di follia per avervi rinunciato. L'amore immaginato
al di là di una finestra. Spiato e fantasticato al buio di una
cucina. Perché è molto più semplice desiderare che
vivere. Unica immagine di un riflesso sognato, di una vita cui si vorrebbe
appartenere. Via d'uscita per accettare un altro amore oramai stanco e
logoro. Emozione nella casualità degli incontri che appaiono inevitabili.
Magici ed imprevedibili nella loro capacità di cambiare il corso
delle vite. Nel condurci al di fuori del buio. Nel renderci visibili a
noi stessi, credendo di essere ancora in tempo. La nostalgica, ultima
illusione creata da Massimo Girotti, interprete della dolcezza e della
pesantezza dei ricordi che ci camminano accanto. Il regista de Le fate
ignoranti mette in gioco tutta la sua sensibilità e ci regala,
di nuovo, non una ma più vicende intrecciate carnalmente tra di
loro. Tra ieri ed oggi, nell'esaltazione di una città, Roma, che
mai viene raffigurata come una cartolina ma che, più che teatro,
diventa parte fondamentale di tutta la vicenda. Attrice attiva parla a
Giovanna tramite i fantasmi ricreati dalla mente delirante di Davide.
Figure cadute in un passato di violenza e morte e che ora riprendono vita
e forma tra quelle stesse strade, sessanta anni dopo, in un fluido montaggio
emozionale tra passato e presente. L'uno fortemente nell'altro ed entrambi
decisivi per il futuro. Tutto è possibile in una città costruita
sui ricordi. In un luogo stretto e chiuso come il ghetto dove i muri e
le case, se si cammina rispettosi del loro apparente silenzio, possono
raccontarci storie. Di coloro che hanno amato, gioito, sofferto. Di minacciosi
passi cadenzati. Di notti di morte e follia. Di tutti quelli che sono
stati portati via e dei pochi
che sono tornati. Perché le strade ed i muri hanno quell'anima
grande pronta ad accogliere i frammenti più importanti delle nostre
vite. Sfondo di un incontro casuale ma fondamentale, com'è tutto
ciò che non è stato programmato. Davide e Giovanna. E nulla
centra Lorenzo. Almeno non subito. Non necessariamente. Ferzan ci prende
in giro. Gioca con noi con quell'allegra vitalità che lo caratterizza.
Ci spiazza mano a mano che la vita del suo film prende forma. Ci convince
che sia la passione che nasce tra Giovanna Mezzogiorno e Raul Bova a dover
concentrare la nostra attenzione. Ma nulla è mai così scontato.
Immediatamente arresta la corsa emotiva conducendoci nella giusta direzione.
Ci afferra, ci spinge delicatamente per poi lasciarci camminare da soli.
Non uno strattone, non una violenza. Mai si spezza il flusso emotivo così
ben gestito da sentirlo come vita. Mai si è fuori dall'emozione.
Dal percorso filmico che cancella quello reale. Ritorniamo in dietro e
ricordiamo. Si incontrano e si scontrano immediatamente la Mezzogiorno
e Girotti. Lo abbiamo visto, eravamo presenti, ma è come se non
l'avessimo considerato fino in fondo. O forse è veramente bravo
il regista a nascondere, tra le trame di un intreccio all'apparenza così
naturale, il significato ultimo di questa vicenda. La possibilità
di decidere. D'essere attivi all'interno della propria vita e di non rimanere
a guardare come spettatori paganti ed insoddisfatti. Davide ci indica
la via giusta per acquisire l'arte del creare non solamente dolci, ma
di rimpastare tutta una vita. Attenzione, non si parla di una ricetta
giusta ed infallibile, ma solo di trovare il coraggio di cambiare, accentandone
tutti i rischi. Di portare il peso delle nostre decisioni anche quando
queste sembrano costarci troppi rimpianti o rimorsi. Giovanna comincia
a comprendere e noi con lei. Rinuncia alla passione per Lorenzo e se proprio
non si condivide, si rispetta. Perché finalmente ha smesso di rimanere
ferma a guardare gli altri vivere da una finestra. Alcuni potrebbero dire
che è un film di perdenti.Immagine di vite mai realmente espresse.
Che si sono rifiutate di esplodere nella ricerca della loro felicità.
In realtà sono vite come le nostre. Vite che hanno compiuto delle
scelte. Non trasportate da un ipotetico destino, ma realmente conquistate.
Che hanno percorso una strada con la consapevolezza di non trovarvi, alla
fine, la felicità assoluta. O che
l'hanno rincorsa, afferrandola solo in parte. Ma tutto dipende dalle traverse
che noi decidiamo d'imboccare. Davide, da uomo ebreo sceglie di abbandonare
l'amore per correre ad avvisare i componenti della sua comunità.
Giovanna rimane all'interno della sua realtà familiare, ma muta
la sua vita lavorativa. Concretizza il sogno di divenire pasticciera,
perché un vecchio le ha fatto comprendere che non è mai
troppo tardi per conquistare ciò che si desidera. Almeno non lo
è per lei. Uomini e donne che si evolvono nella convinzione che
non si può solamente sognare di avere una vita migliore, ma si
deve avere il coraggio di viverla. Un messaggio che il regista affida
all'intensità di un uomo che proviene e vive nel passato per concedersi
brevi e densi passaggi nel presente. E non è un caso. Perché
i bisogni e la ricerca rimangono sempre gli stessi, ma anche gli ostacoli
non sono certo mutati. Hanno cambiato forma, ma la loro essenza, quella
forza opprimente e distruttiva rimane invariata. Il passato deve insegnare.
E non solamente perché la storia, nella sua malvagità, non
torni, ma perché si acquisisca la forza di procedere in avanti.
Un messaggio universale ed assolutamente attuale in tempi in cui sembra
ancora più difficile ed improbabile lottare per le proprie vite.
In cui la storia sembra riproporci nuove guerre ed umanità schiacciate.
In cui si ritorna ad avere drammaticamente timore del diverso, ammesso
che non lo si sia sempre continuato a fare nel silenzio di una vergogna
morale. In una sera d'estate, all'interno di una casa dalle finestre aperte,
Giovanna e Davide ballano al ritmo di una musica latina. Intorno a loro
si muovono figure invisibili. La donna non le percepisce. Assapora solo
la dolce tranquillità del momento. L'uomo non solo le vede ma le
riconosce. Una ad una. Sono i volti di una vita. L'importanza del ricordo.
Gocce di un passato.
Tiziana
Morganti
Incontro
con Ferzan Ozpetek
Recensione
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