La mia America
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di Giacomo Leso
L'occhio di Bernard-Henri Lévy sugli Usa. Sui loro valori, sulle loro crisi. Uno specchio incrinato. Nel quale anche l'Europa potrebbe riflettersi Bernard-Henri Lévy
Ventimila chilometri in auto, nel cuore dell'America. Quasi un anno d'inchiesta alla conquista dell'identità americana. Alla scoperta di questa nazione tanto criticata in Europa per le sue guerre e la sua arroganza. Un viaggio per conoscere meglio gli americani e per poterli quindi, eventualmente, amare. Questa è l'esperienza vissuta, dal luglio 2004 all'aprile 2005, dal "nouveau philosophe" francese Bernard- Henri Lévy, e raccontata nel libro "American Vertigo", presto in uscita in Italia da Rizzoli. Oltre ai chilometri, Lévy digerisce gli incontri di personaggi illustri e di illustri sconosciuti. Da quelli delle megalopoli a quelli dei deserti. Ci riceve, camicia bianca a collo aperto e giacca nera come al suo solito, nel suo immenso appartamento del Boulevard Saint-Germain, in una pausa caffè fra un ritorno da Tolosa e un Eurostar per Londra. Oltre al suo sogno americano racconta, in questa intervista a "L'espresso", i suoi pensieri sulla politica francese ed europea, sul "fascislamismo" (il termine l'ha inventato lui), sui limiti che gli americani riconoscono ormai al "comunitarismo" (ovvero la semplificazione della nazione in un insieme di più comunità di diverso tipo - etnica, sociale, religiosa, sessuale - piuttosto che come somma di diversi individui), quando gli europei vorrebbero a volte importarlo.Bernard-Henri Lévy, nel suo"American Vertigo", lei spiega l'America come l'ha vista. Ci dica veramente com'è andata: è stato BHL a conquistare l'America o è l'America che ha conquistato BHL?
«L'America mi ha conquistato da tanto tempo. Sono culturalmente figlio dell'America, della sua letteratura, del suo cinema, della sua musica». Nel 1831 un altro francese, Alexis de Tocqueville, scriveva "La democrazia in America". La stampa americana lo ha evocato nelle critiche sul suo testo. Come si pone rispetto a questo precedente celebre? «Con molta modestia. Il suo è un testo immenso, un capolavoro assoluto del reportage e della scienza politica. Trovo il paragone schiacciante. Vedremo fra 170 anni».
Ci faccia uno schizzo della sua America.
«Non posso. Gli scrittori non sanno dire le cose in altro modo. Quando si scrive si esce dalla propria lingua naturale per inventarne un'altra. Sarebbe impossibile riassumere 500 pagine in poche frasi».
Che tipo di esperienza è stata questo viaggio? Che cosa le è rimasto?
«Ho scoperto una faccia oscura dell'America che non conoscevo. Ho scoperto una certa verità. Ma questa verità me l'ha resa più fragile, più vulnerabile, più colpevole, ma anche più cara. È un paradosso, ma è così. È come quando si conosce qualcuno molto bene con i suoi difetti e le sue qualità».
Lei dice che l'America ha lezioni da darci. Quali sono le principali?
«La principale lezione che ci dà è nella definizione dell'essenza della nazione. Che cos'è una nazione quando è fatta di diverse comunità di persone che arrivano da ogni posto del mondo? Spesso non parlano la stessa lingua e quando la parlano non hanno lo stesso accento. Non hanno una memoria condivisa, ma origini italiane, polacche, europee o d'altrove che sono lì, a distanza di poche generazioni. Eppure, nonostante tutto, formano una comunità nazionale e comunicano in un sentimento patriottico. Per un francese è incredibile. La Francia crede nella religione nazionale che è quella della nazione organica, delle radici che affondano nel suolo della memoria, dei morti, della razza. Io odio questa concezione ed è forse per questo che provo un sentimento di libertà incredibile quando sono in America».
E lei, che cosa ha voluto insegnare agli americani?
«Bisognerebbe chiederlo a loro. Credo che l'idea di partenza del magazine americano "Atlantic Monthly", quando mi ha commissionato il reportage all'origine del libro, fosse questa: quando un paese è in crisi, come l'America lo è oggi, deve potersi guardare con occhi stranieri. Ho guardato e ho trovato un'America ancor più che in crisi. Vive un momento di vertigine narcisistica assoluta. Credo che tutti possano imparare da uno sguardo straniero, critico e amichevole».
In Europa, e in particolare in Francia, il sogno americano sembra non funzionare più...
«L'America è un'Europa "ricominciata". Quella europea è la sua storia. Sono gli europei che, sfuggendo alle tirannie, vanno là a riseminare diversamente lo stesso grano... L'America è il nostro figlio maggiore. Ma oggi si assiste a un edipo al contrario: il padre vuole uccidere il figlio».
Senza essere accusati di infanticidio, si può notare che gli Stati Uniti sono il paese delle prigioni stracolme, delle guerre sanguinarie in nome del Bene e contro il Male, della pena di morte, dell'aborto minacciato...
«Rassicuriamo i lettori: nonostante ci siano degli esagitati che lo chiedono, l'aborto non sarà mai ridiscusso. Quanto alla pena di morte, è la parte oscura dell'America. Desolante, deludente. Come le armi da guerra in vendita libera o le prigioni. Ma siamo sicuri che quelle francesi o italiane siano migliori? Quanto alle guerre... Sono un avversario accanito della guerra in Iraq, ma rispetto alle guerre europee, iniziatrici della modernità, non credo si possa dire che quella di oggi sia più sanguinaria».
Lei denuncia l'anti-americanismo. Ma gli americani non sono forse andati un po' troppo lontano nella loro lotta per la supremazia mondiale?
«Respingo questo concetto. Non credo ci sia una voglia di conquista del mondo. Il concetto di impero non rende conto della natura reale dell'America. Credo che Toni Negri abbia ragione quando parla di un'imperialità diffusa, slegata dagli Stati. E chi lo ha detto che l'opinione dominante in America sia quella di un'espansione della sua influenza? Conosco congressmen senza passaporto, senatori che vorrebbero un ritiro dell'America da tutti i conflitti, vedo nei democratici più una tendenza all'isolazionismo che una tendenza imperialista. C'è un'ideologia crescente che punta più alla gestione dei problemi interni che a quelli internazionali».
Durante quest'ultimo viaggio che cosa ha capito dei neoconservatori?
«Che sono dei cretini, ma non dei farabutti. Parlo dei veri neoconservatori e non di Donald Rumsfeld o di Dick Cheney, che invece hanno entrambi i difetti. Ma gli altri, questi intellettuali che arrivano dall'estrema sinistra e che sono passati alla destra e che sono stati architetti della guerra in Iraq, sono solo delle nullità, dei naïf, degli arroganti che hanno creduto che l'America poteva fare a meno del resto del mondo. Non sono dei farabutti, perché non credo debba essere preso alla leggera l'obiettivo di allargare i territori della democrazia. Moralmente preferisco ancora i neocons, che vogliono diffondere la democrazia e dicono "il mio nemico è Saddam" agli archeo-conservatori che difendevano le dittature e dicevano "il mio amico è Pinochet"».
Si potrebbe fare un paragone con i molti amici di Vladimir Putin?
«Certo. I neocons sono forti con un debole come Saddam o il Mullah Omar, ma sono deboli con un forte, Putin. La realpolitik riprende in questo caso il sopravvento».
Cosa pensa di Gerhard Schroeder entrato nel consiglio d'amministrazione di Gazprom?
«È scoraggiante. Avevo già scritto cose sgradevoli su di lui quando diceva che un memoriale sulla Shoah gli andava bene, ma che doveva essere un luogo in cui si potesse andare "con piacere". Lo avevo incontrato e avevo sentito qualcosa di lugubre. Il seguito della sua carriera conferma la mia diffidenza. Come può un ex cancelliere di un paese europeo accettare di diventare il pr di Putin in questa epoca in cui Grozny pena a ricostruirsi e i ceceni continuano ad essere ammazzati come cani?».
Dopo le elezioni di metà mandato gli Stati Uniti sono costretti alla coabitazione. Sarà il momento dell'autocritica?
«Spero di sì. Ma potrebbe essere anche il momento della fuga in avanti. Perché Bush è a fine di mandato e il loro sistema non lo obbliga a rendere conto a nessuno».
Cosa pensa di Bush?
«Il capitolo che gli dedico nel mio libro si chiama "La rivincita del piccolo uomo". È un bambino che cerca di vendicarsi dei democratici e dei grandi, delle dinastie dei Kennedy e dei Kerry, che lo hanno umiliato quando era giovane».
«L'America è un'Europa "ricominciata". Quella europea è la sua storia. Sono gli europei che, sfuggendo alle tirannie, vanno là a riseminare diversamente lo stesso grano... L'America è il nostro figlio maggiore. Ma oggi si assiste a un edipo al contrario: il padre vuole uccidere il figlio».
Senza essere accusati di infanticidio, si può notare che gli Stati Uniti sono il paese delle prigioni stracolme, delle guerre sanguinarie in nome del Bene e contro il Male, della pena di morte, dell'aborto minacciato...
«Rassicuriamo i lettori: nonostante ci siano degli esagitati che lo chiedono, l'aborto non sarà mai ridiscusso. Quanto alla pena di morte, è la parte oscura dell'America. Desolante, deludente. Come le armi da guerra in vendita libera o le prigioni. Ma siamo sicuri che quelle francesi o italiane siano migliori? Quanto alle guerre... Sono un avversario accanito della guerra in Iraq, ma rispetto alle guerre europee, iniziatrici della modernità, non credo si possa dire che quella di oggi sia più sanguinaria».
Lei denuncia l'anti-americanismo. Ma gli americani non sono forse andati un po' troppo lontano nella loro lotta per la supremazia mondiale?
«Respingo questo concetto. Non credo ci sia una voglia di conquista del mondo. Il concetto di impero non rende conto della natura reale dell'America. Credo che Toni Negri abbia ragione quando parla di un'imperialità diffusa, slegata dagli Stati. E chi lo ha detto che l'opinione dominante in America sia quella di un'espansione della sua influenza? Conosco congressmen senza passaporto, senatori che vorrebbero un ritiro dell'America da tutti i conflitti, vedo nei democratici più una tendenza all'isolazionismo che una tendenza imperialista. C'è un'ideologia crescente che punta più alla gestione dei problemi interni che a quelli internazionali».
Durante quest'ultimo viaggio che cosa ha capito dei neoconservatori?
«Che sono dei cretini, ma non dei farabutti. Parlo dei veri neoconservatori e non di Donald Rumsfeld o di Dick Cheney, che invece hanno entrambi i difetti. Ma gli altri, questi intellettuali che arrivano dall'estrema sinistra e che sono passati alla destra e che sono stati architetti della guerra in Iraq, sono solo delle nullità, dei naïf, degli arroganti che hanno creduto che l'America poteva fare a meno del resto del mondo. Non sono dei farabutti, perché non credo debba essere preso alla leggera l'obiettivo di allargare i territori della democrazia. Moralmente preferisco ancora i neocons, che vogliono diffondere la democrazia e dicono "il mio nemico è Saddam" agli archeo-conservatori che difendevano le dittature e dicevano "il mio amico è Pinochet"».
Si potrebbe fare un paragone con i molti amici di Vladimir Putin?
«Certo. I neocons sono forti con un debole come Saddam o il Mullah Omar, ma sono deboli con un forte, Putin. La realpolitik riprende in questo caso il sopravvento».
Cosa pensa di Gerhard Schroeder entrato nel consiglio d'amministrazione di Gazprom?
«È scoraggiante. Avevo già scritto cose sgradevoli su di lui quando diceva che un memoriale sulla Shoah gli andava bene, ma che doveva essere un luogo in cui si potesse andare "con piacere". Lo avevo incontrato e avevo sentito qualcosa di lugubre. Il seguito della sua carriera conferma la mia diffidenza. Come può un ex cancelliere di un paese europeo accettare di diventare il pr di Putin in questa epoca in cui Grozny pena a ricostruirsi e i ceceni continuano ad essere ammazzati come cani?».
Dopo le elezioni di metà mandato gli Stati Uniti sono costretti alla coabitazione. Sarà il momento dell'autocritica?
«Spero di sì. Ma potrebbe essere anche il momento della fuga in avanti. Perché Bush è a fine di mandato e il loro sistema non lo obbliga a rendere conto a nessuno».
Cosa pensa di Bush?
«Il capitolo che gli dedico nel mio libro si chiama "La rivincita del piccolo uomo". È un bambino che cerca di vendicarsi dei democratici e dei grandi, delle dinastie dei Kennedy e dei Kerry, che lo hanno umiliato quando era giovane».
E di Hillary Clinton?
«È una delle più grandi personalità dell'America di oggi. Sicuramente ha possibilità di arrivare alla Casa Bianca, ma dovrà fare i conti con l'odio di molti americani per il suo cognome».
Il ministro francese dell'Interno, Nicolas Sarkozy, è stato favorevole alla guerra in Iraq, e quando ha incontrato Bush ha criticato la Francia "arrogante". È un neoconservatore?
«Fa sicuramente parte della loro eredità ideologica. Sulla guerra si è sbagliato e ora si vede che è stato un errore colossale. Sull'arroganza francese, invece, non ha torto: c'è un assoluto. Il gallo francese che dà lezioni agli Usa esiste. Almeno lui si è chiesto se era meglio stringere la mano a Bush, che ha fatto una guerra sbagliata, ma senza genocidi o massacri di massa, che a Putin».
L'America lotta contro il comunitarismo, ma lui vorrebbe importarlo in Francia.
«Il comunitarismo è stato un modo per la Nazione americana di comporsi e per le minoranze di esercitare pienamente i propri diritti. Oggi però le comunità che dovevano liberare gli individui stanno diventando prigioni. Sarkozy arriva in ritardo».
Vi sono delle similitudini nel modo di far politica fra Ségolène Royal e Nicolas Sarkozy? Non portano in Francia un certo berlusconismo?
«Sì, certo, portano un certo populismo basato sui sondaggi. E riducono la politica all'analisi dell'opinione e dei sentimenti della gente».
Cosa rappresenterebbe per la Francia l'elezione di una donna alla presidenza della Repubblica?
«Di sicuro una buona cosa per questo paese cattolico e machista che ha ancora tendenza a vedere le donne come capaci solo a far figli e restare in casa. È una buona lezione per questa parte retrograda del Paese. Che il destino politico abbia scelto la persona giusta, si vedrà».
Voterà per Ségolène Royal?
«Non avrò molta scelta».
Cosa portano di nuovo le donne alle più alte cariche istituzionali?
«Nulla, se non la caduta di questo pregiudizio enorme che le donne non siano adatte a gestire la cosa pubblica. Non credo abbiano valori superiori a quelli maschili».
Quali sono le grandi battaglie che il mondo deve oggi affrontare?
«Quella nell'Islam fra moderati e radicali. La guerra di civilizzazione non fra Occidente e Islam, ma all'interno stesso dell'Islam: fra le forze del fanatismo e quelle della democrazia».
Cosa intende con il neologismo "fascislamismo"?
«Che è un fascismo dal volto islamico. Una delle fonti dell'islamismo radicale è il fascismo europeo. L'odio dei lumi, l'odio dell'individualità democratica, l'odio del liberalismo arrivano attraverso mediazioni, da alcuni pensatori europei, francesi, tedeschi, italiani del XIX e XX secolo».
Da chi dev'essere combattuto?
«Dalle sue vittime prima di tutto: musulmani, donne, uomini, intellettuali. E noi europei, che ci crediamo meno esposti, dobbiamo aiutarli. Quando lottavamo contro il comunismo reale facevamo catene di solidarietà. Bisogna fare lo stesso con chi si batte per la laicità e i diritti dell'uomo in terra d'Islam. Li dobbiamo sostenere come abbiamo sostenuto Bukowski, Solgenitsin, Walesa».
Che ruolo può giocare l'Europa nel conflitto israelo-palestinese?
«La soluzione tutti la conoscono. Due Stati uno di fianco all'altro. Se ne conoscono più o meno già le frontiere. Tutte le persone ragionevoli sono d'accordo. Servirebbe un mediatore capace di convincere gli interlocutori che sono partner legittimi»
«È una delle più grandi personalità dell'America di oggi. Sicuramente ha possibilità di arrivare alla Casa Bianca, ma dovrà fare i conti con l'odio di molti americani per il suo cognome».
Il ministro francese dell'Interno, Nicolas Sarkozy, è stato favorevole alla guerra in Iraq, e quando ha incontrato Bush ha criticato la Francia "arrogante". È un neoconservatore?
«Fa sicuramente parte della loro eredità ideologica. Sulla guerra si è sbagliato e ora si vede che è stato un errore colossale. Sull'arroganza francese, invece, non ha torto: c'è un assoluto. Il gallo francese che dà lezioni agli Usa esiste. Almeno lui si è chiesto se era meglio stringere la mano a Bush, che ha fatto una guerra sbagliata, ma senza genocidi o massacri di massa, che a Putin».
L'America lotta contro il comunitarismo, ma lui vorrebbe importarlo in Francia.
«Il comunitarismo è stato un modo per la Nazione americana di comporsi e per le minoranze di esercitare pienamente i propri diritti. Oggi però le comunità che dovevano liberare gli individui stanno diventando prigioni. Sarkozy arriva in ritardo».
Vi sono delle similitudini nel modo di far politica fra Ségolène Royal e Nicolas Sarkozy? Non portano in Francia un certo berlusconismo?
«Sì, certo, portano un certo populismo basato sui sondaggi. E riducono la politica all'analisi dell'opinione e dei sentimenti della gente».
Cosa rappresenterebbe per la Francia l'elezione di una donna alla presidenza della Repubblica?
«Di sicuro una buona cosa per questo paese cattolico e machista che ha ancora tendenza a vedere le donne come capaci solo a far figli e restare in casa. È una buona lezione per questa parte retrograda del Paese. Che il destino politico abbia scelto la persona giusta, si vedrà».
Voterà per Ségolène Royal?
«Non avrò molta scelta».
Cosa portano di nuovo le donne alle più alte cariche istituzionali?
«Nulla, se non la caduta di questo pregiudizio enorme che le donne non siano adatte a gestire la cosa pubblica. Non credo abbiano valori superiori a quelli maschili».
Quali sono le grandi battaglie che il mondo deve oggi affrontare?
«Quella nell'Islam fra moderati e radicali. La guerra di civilizzazione non fra Occidente e Islam, ma all'interno stesso dell'Islam: fra le forze del fanatismo e quelle della democrazia».
Cosa intende con il neologismo "fascislamismo"?
«Che è un fascismo dal volto islamico. Una delle fonti dell'islamismo radicale è il fascismo europeo. L'odio dei lumi, l'odio dell'individualità democratica, l'odio del liberalismo arrivano attraverso mediazioni, da alcuni pensatori europei, francesi, tedeschi, italiani del XIX e XX secolo».
Da chi dev'essere combattuto?
«Dalle sue vittime prima di tutto: musulmani, donne, uomini, intellettuali. E noi europei, che ci crediamo meno esposti, dobbiamo aiutarli. Quando lottavamo contro il comunismo reale facevamo catene di solidarietà. Bisogna fare lo stesso con chi si batte per la laicità e i diritti dell'uomo in terra d'Islam. Li dobbiamo sostenere come abbiamo sostenuto Bukowski, Solgenitsin, Walesa».
Che ruolo può giocare l'Europa nel conflitto israelo-palestinese?
«La soluzione tutti la conoscono. Due Stati uno di fianco all'altro. Se ne conoscono più o meno già le frontiere. Tutte le persone ragionevoli sono d'accordo. Servirebbe un mediatore capace di convincere gli interlocutori che sono partner legittimi»