di Marco Damilano
Condurre in porto il Partito democratico e poi lasciare la guida ai giovani. E ancora: governo, Medioriente, Usa... Parla il ministro. Colloquio con Massimo D'Alema
Massimo D'Alema
Nell'anno che si chiude ha sfiorato la presidenza della Repubblica. "Sì, è vero, ho rischiato di tutto nel 2006...", ammette Massimo D'Alema: "Però sono stato fortunato: invece delle cariche istituzionali ho pescato il jolly, il lavoro che mi appassiona di più". Fare il ministro degli Esteri lo esalta. Nel suo ufficio alla Farnesina prepara la delicata missione in Libano e Palestina di questi giorni e il fine anno in Brasile, Cile e Perù. E snocciola i suoi successi: "In questi mesi abbiamo aperto una nuova stagione di rapporti politici e economici con l'Asia e in particolare con la Cina, abbiamo firmato accordi con Algeria e Russia (il partenariato Eni-Gazprom da 180 miliardi di euro), stiamo chiudendo il contenzioso con la Libia. E tutto questo senza incrinare i rapporti di amicizia con l'America, anzi. Non è un bilancio così negativo, mi pare...".

Infatti lei è in testa ai sondaggi di popolarità. A differenza del resto del governo.
"La politica estera non è un fatto personale, è l'azione di tutto il governo. E Romano Prodi sta dando un contributo molto importante per questo rinnovato profilo internazionale del Paese".

Tuttavia la popolarità del governo Prodi è in calo. Qual è l'errore che si poteva evitare?
"L'errore più grave sarebbe ora aprire la discussione sugli errori. I partiti hanno il diritto-dovere di dire la loro, come hanno fatto i Ds, ma il governo non può essere luogo di dibattiti. Abbiamo fatto la scelta più difficile: prendere di petto la situazione del Paese. La destra ha una responsabilità gigantesca: quando sento Giulio Tremonti parlare di Finanziaria da dementi trasecolo. Ci hanno lasciato un'eredità pesantissima, lo stato dei conti pubblici e dell'amministrazione, il clientelismo".

E allora perché crollate nei sondaggi?
"È fisiologico che a Finanziaria in corso la popolarità del governo cali. E forse c'è stato un impatto dovuto alle attese enormi che si erano accumulate: il Paese si sarebbe aspettato l'aumento di salari e le pensioni. Quando invece abbiamo compiuto necessariamente scelte in direzione del risanamento, il Paese è stato preso in contropiede".

Le è capitato di essere fischiato di recente?
"In questi giorni no. Ma ci sono momenti che un politico deve anche farsi fischiare. Io sono andato a cercare i fischi, per esempio quando andai all'assemblea dei girotondi di Firenze. Non è drammatico: anzi, diffido di chi in politica non viene mai fischiato".

Non ci sono solo gli attacchi della destra. Anche secondo il presidente Carlo Azeglio Ciampi al governo manca la missione. Sbaglia?
"Sono d'accordo con Ciampi. Come ha detto Bersani: manca il titolo del film".

Colpa del regista, di Prodi?
"No, non è un problema di sostanza. Si è trasmesso in ritardo il messaggio sull'esigenza di fare una manovra rigorosa. Quando lo si è fatto era troppo tardi, tutto si era già sminuzzato nelle singole misure, con la perdita della visione d'insieme".

Mario Monti dice: senza le riforme la Finanziaria sarà inutile. È d'accordo anche con lui?
"Sulle riforme c'è una certa demagogia. Affermare che bisogna abbassare le tasse e tagliare le spese è un ragionamento suggestivo, ma non è fondato su un'analisi seria della struttura della finanza pubblica italiana. La nostra spesa pubblica è nettamente inferiore a quella di altri paesi europei. Riorganizzarla è un'operazione di medio periodo che va impostata nel corso degli anni. Il centrodestra è andato nella direzione opposta. Dobbiamo riprendere il cammino virtuoso, rimettere a posto la previdenza, su cui i sindacati si dicono pronti a discutere, rompendo il tabù dell'età pensionabile, firmare il contratto degli statali. E poi le liberalizzazioni, la riforma delle professioni...".

È questa la mitica fase due? Sembra il secondo round rifomista, dopo che nel primo a vincere è stata la sinistra radicale...
"È una colossale sciocchezza. Nel governo c'è stata una grande discussione se fare una manovra per rientrare subito nei parametri europei o spalmarla in più anni come voleva Rifondazione, e abbiamo avuto ragione noi. Ora dobbiamo premere sull'acceleratore con i cambiamenti. Lavorare a un patto con le forze produttive che abbia al centro uno scambio sociale: l'impresa dovrebbe riconoscere l'eccessiva precarietà del lavoro e i sindacati dovrebbero favorire più meritocrazia".
Si può fare con una maggioranza fragile? Gianfranco Fini dice che il governo non ha legittimità democratica: si regge sui senatori a vita.
"Il vero tema è la legittimità democratica di questa legge elettorale che non dà al Senato la maggioranza dei seggi a chi ha ricevuto la maggioranza dei voti. Hanno fatto una legge congegnata per rendere il Paese ingovernabile. Chi porta questa responsabilità dovrebbe almeno avere la dignità di tacere. I senatori a vita con il loro voto rimediano a questa anomalia".

Come giudica quanto avviene nel centrodestra dopo lo strappo di Pier Ferdinando Casini?
"Viene alla luce la distinzione tra un centrodestra moderato e la parte che si è caratterizzata per posizioni estremistiche".

Casini ha detto di essere disponibile a votare un governo di grandi intese presieduto da lei: la infastidisce?
"Vorrei solo essere lasciato in pace. Sto facendo un lavoro che mi piace, non voglio essere tirato dentro improbabili retroscena".

Il Partito democratico è un processo irriversibile? O può ancora saltare tutto?
"Il Pd è una necessità per il Paese, condivisa dalla maggioranza degli italiani che sperano che dall'altra parte nasca un centrodestra di tipo europeo. È un processo largamente avviato, anche se vedo tante preoccupazioni, che considero naturali. Ognuno teme che il nuovo partito sia un partito ideologico, ma con l'ideologia degli altri. C'è la paura di finire nella nuova Dc o nel nuovo Pci. E invece il nuovo partito sarà un rassemblement che troverà il suo modo di essere nel programma, nella selezione della classe dirigente, nel pluralismo delle culture".

La classe dirigente del Pd sarà la stessa dell'Ulivo e del centrosinistra anni Novanta?
"Il Pd sarà costruito da noi o non sarà. Ma dobbiamo pensarlo non per conservare questa generazione, ma per formare una nuova classe dirigente. Ci vuole un atto di generosità della nostra generazione: il processo non può essere condizionato dai problemi dell'attuale leadership. Il Pd va costruito per promuovere una nuova leadership. Solo questa proiezione verso il futuro può dare slancio al progetto".

Veniamo alla politica estera. Lei è in partenza per il Medio Oriente: siamo alla guerra civile?
"Siamo in una situazione davvero difficile. C'è un rischio di inasprire il conflitto lungo tutta la catena Libano, Siria, Iran, Iraq, Palestina. L'idea ambiziosa e ingenua dei neocon, secondo cui la guerra in Iraq avrebbe prodotto una spinta verso la democrazia, si è rivelata del tutto infondata. Si è aperto invece un conflitto lacerante non solo tra Occidente e Islam, ma che attraversa lo stesso mondo musulmano. Il direttore dell'Istituto per le relazioni internazionali di Parigi, Dominique Moïsi, sostiene che l'Occidente è il continente della paura, il mondo islamico è il continente dell'umiliazione e dell'odio e la speranza si è spostata verso l'Asia. Non è inasprendo il conflitto tra moderati e radicali che risolviamo questa condizione. In Libano abbiamo dato un segnale importante. Si è rotto lo schema "Occidente contro Islam": nella missione Unifil si è impegnata la comunità internazionale, l'India, la Turchia, il Qatar. Sosteniamo il tentativo della Lega araba che riconosce il ruolo delle componenti sciite, il ruolo del premier Siniora, un tribunale internazionale che indaghi sull'omicidio di Hariri e gli altri crimini politici. Lavoriamo perché l'impresa riesca".

E in Palestina? C'è il rischio di una situazione algerina: un golpe di Abu Mazen contro i fondamentalisti di Hamas?
"Non c'è nessun colpo di Stato, Abu Mazen è stato eletto dal popolo. E Hamas è una forte componente della società palestinese, ma, non dimentichiamolo, non ha avuto la maggioranza del voto popolare. Non c'è il popolo da una parte e il dittatore dall'altra. Abu Mazen punta sulle elezioni dopo aver tentato l'accordo e dopo che Hamas si è rivelata completamente irragionevole. Tutta l'Europa, e anche il governo israeliano, ha visto con favore un governo di unità nazionale. Ma Hamas si è collocata su posizioni estremistiche e ciò non ha contribuito a rompere l'isolamento palestinese. Ora bisogna cercare una via d'uscita".
Lei ha puntato il dito sulle responsabilità di Israele a Gaza. Scatenando la reazione della comunità ebraica.
"Sono polemiche italo-italiane che nascono dalla falsificazione. C'è la reattività di una lobby ristretta che impedisce una discussione serena. Per aver definito questa estate "sproporzionata" la reazione israeliana all'attacco di Hezbollah ho ricevuto un editoriale di condanna dal principale quotidiano italiano: ma era solo una citazione parziale della posizione espressa dalla presidenza Ue. Ora ho solo affermato che Israele, sulla base di motivazioni di sicurezza, non ha consentito la piena applicazione dell'accordo sulla libertà di accesso e movimento al valico di Rafah. Non lo dice un pericoloso estremista, lo ha constatato il capo della missione europea, il generale dei carabinieri Pistolese, non certo un pericoloso estremista".

Per forza, obiettano gli israeliani, in quel valico passano armi e soldi per Hamas.
"Il valico è controllato, la missione è molto ben organizzata. E abbiamo ripetuto agli israeliani di essere disponibili a rafforzare i controlli. Quanto ai finanziamenti, il problema va posto nel contesto del blocco dei fondi per i palestinesi". Quanto pesa sulla sua azione il pregiudizio di fare una politica amica di Siria, Iran, Hezbollah, insomma anti-israeliana?
"Lasciamo perdere polemiche sciocche e provinciali. È ridicolo dire che siamo qui pronti a criticare Israele e andare a braccetto con gli estremisti. Con la Siria abbiamo parlato con prudenza e senso della misura. Faccio notare che il ministro degli Esteri tedesco e quello spagnolo sono andati a Damasco, non so cosa si sarebbe detto se ci fossi andato io. Anche il dialogo con l'Iran è molto franco. Noi abbiamo una posizione indipendente: è una politica di amicizia e di sincerità che viene apprezzata. Il governo israeliano ci ha sempre ringraziato. Sappiamo benissimo che la pace si costruisce solo garantendo la sicurezza di Israele. Oggi indubbiamente da parte israeliana si evita di incoraggiare le forze estremiste, a differenza di quanto accadeva in passato. È un fatto molto positivo".

Come giudica la nuova dottrina americana in Iraq?
"Dopo la pubblicazione del rapporto Baker-Hamilton sembra esserci una qualche incertezza nell'amministrazione Bush. Affiora perfino la tentazione di dare l'ultimo colpo prima di andare via, il rafforzamento della presenza militare per fare un'operazione di sradicamento, magari con la prospettiva di accelerare il ritiro. Bisogna programmare la riduzione della visibilità americana e favorire la capacità irachena di riprendere il controllo della situazione. Noi siamo usciti dalla "coalizione dei volenterosi", mantenendo però il nostro impegno. Tuttavia, ben oltre la questione irachena, non credo affatto che gli Stati Uniti debbano ritirarsi in casa loro. Al contrario c'è bisogno che tornino protagonisti sulla scena internazionale, anche per rimediare, lo dico in modo amichevole, ai loro errori".

Il 2007 sarà l'anno del ritiro dell'Italia dall'Afghanistan dopo quello dall'Iraq?
"È un errore considerare l'Afghanistan un'operazione della Nato, è una missione della comunità internazionale. Non credo sia pensabile lasciare l'Afghanistan ai talebani. Ho qui un loro testo molto interessante raccolto da Gilles Kepel. "Quanto alle donne comuniste", recita, "bisogna ucciderle tutte". Lo ricordo a quanti li scambiano per partigiani: il fondamentalismo talebano esprime una feroce violenza reazionaria, anti-femminile, se andiamo via tornano questi. Anche in Afghanistan non si può vincere la sfida solo sul piano militare. Ne ho parlato con Wen Jiabao e con Putin, cinesi e russi sono interessati a stabilizzare la regione".

Anche in questa intervista emerge un D'Alema totalmente identificato con il suo ruolo da statista. Nei Ds qualcuno ci resterà male: lei si sente ancora uomo di partito?
"Essere uomo di partito è un onore, ringrazio quando mi chiamano così. Non è in contraddizione con il senso dello Stato: Nilde Jotti da presidente della Camera rimproverava con severità innanzitutto i deputati del Pci. I grandi partiti, quelli seri, ti educavano a servire il Paese. Forse non va più di moda, ma a me hanno insegnato così. E ognuno è figlio del suo tempo".