«Emanuela Orlandi fu rapita e uccisa da De Pedis, voleva estorcere soldi al Vaticano»
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Parla Antonio Mancini, pentito della banda della Magliana
di Enrico Gregori
ROMA (24 giugno) - Antonio Mancini, 60 anni, «malavitoso di razza». La banda della Magliana non ha mai avuto un boss, ma semmai un vertice. Lui, soprannominato ”accattone”, Maurizio Abbatino, Edoardo Toscano e Marcello Colafigli.
Oggi ha cambiato vita, sta ai semi-domiciliari e lavora in una cooperativa che assiste i disabili.
Attraverso il suo avvocato Ennio Sciamanna chiediamo ad ”accattone” cosa pensa di questo nuovo filone di inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.
La ragazza fu rapita per scambiare la sua liberazione con quella di Alì Agcà?
«Ma quando mai!»
E invece?
«Soldi, sempre i soldi. La banda aveva prestato cifre da capogiro a Roberto Calvi, soldi girati al Vaticano. Soldi che dovevano prima o poi tornare a casa».
Quadrerebbe. Ma la famiglia Orlandi era così importante da poter essere ”oggetto” di trattative?
«Secondo me sì, ma non mi vorrei sbilanciare».
E allora si sbilanci a dire chi rapì Emanuela Orlandi e se, oggi, Sabrina Minardi dice cose verosimili.
«In parte sì. Emanuela Orlandi fu sequestrata da Enrico De Pedis. Le trattative per il rilascio furono gestite ad alto livello. Molto alto».
Però andò tutto a scatafascio.
«Per me De Pedis ammazzò la Orlandi e provò ad andare avanti lo stesso con le trattative. Però a un certo punto il Vaticano capì come poteva essere andata e scattò il panico».
E in tutto questo c’entra anche il fatto che De Pedis sia sepolto nella chiesa di Sant’Apollinare?
«Ottenne questo durante le trattative. De Pedis era religiosissimo. Sì, ammazzava la gente, ma era religioso».
Ma De Pedis era così potente?
«Con noi in carcere lo diventò e questo non lo faceva vedere di buon occhio. Spadroneggiava. Lui fece ammazzare Edoardo Toscano, un amico mio vero».
La condanna a morte di De Pedis.
«Per forza. Edoardo doveva essere vendicato. Del resto anche in carcere qualcuno cercò di ammazzare De Pedis strangolandolo con i lacci dalle scarpe».
Comunque la vicenda Orlandi conferma che la banda aveva le mani in pasta in affari di alto livello.
«Certamente. Il documento falso in cui si parlava del cadavere di Moro nel lago della Duchessa lo fece Antonio Chichiarelli, uno di noi. Dal nostro arsenale uscì la pistola che uccise Mino Pecorelli e le armi usate per il depistaggio sulla strage di Bologna».
Quindi è vero che voi individuaste la prigione di Moro?
«Verissimo. Ce lo chiese Raffaele Cutolo di darci da fare, e trovammo la casa».
Poi?
«Poi marcia indietro. Insomma ci sono le carte, io di queste cose non mi impiccio».
E “accattone” di cosa si impicciava?
«A me piacevano i soldi, le Ferrari, i locali e le donne. Per quello ho cominciato a fare il bandito, per fare la bella vita. C’avevo i miliardi e me li sono mangiati tutti».
Quindi la banda ”morì” quando cominciò a occuparsi d’altro.
«E certo. Ma che c’entravano banditi come noi con l’attentato a Rosone? Ma Abbruciati e altri si erano legati a politici, ai servizi. Roba da matti!».
Ma lei, oggi, chi è?
«Uno che fece del male e che tenta di riscattarsi lavorando per il bene degli altri. Oggi pulisco il naso ai disabili e ne sono orgoglioso. Il male di ieri e il bene di oggi, questo è quello che ho voluto raccontare in ”Col sangue agli occhi”, un libro su di me e sulla banda scritto insieme alla giornalista Federica Sciarelli».
Cosa la spinse a diventare collaboratore di giustizia?
«La mia figlia più grande io l’ho vista solo attraverso i vetri del parlatorio del carcere.
Quando stava per nascere la seconda, un carabiniere mi chiese ”ma pure questa la vuoi vedere così?”. No, mi sono detto, pure lei no. Ho scelto la famiglia. E ho fatto bene».
Ma oggi esiste ancora la banda della Magliana?
«Sì, esiste. Anche se non spara».