Clima, accordo dimezzato. Delusi i paesi europei. Poi la sigla
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Il pianeta può attendere. La Conferenza Onu di Copenaghen sul cambiamento climatico partorisce un compromesso al ribasso, che rimanda al futuro la definizione degli impegni di riduzione delle emissioni.
Il testo, frutto dell’accordo tra Stati Uniti, Cina, India, Brasile e Sudafrica, è una toppa messa all’ultimo momento per nascondere il sostanziale fallimento di un negoziato che per 12 giorni catturato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. In serata fonti dell’Unione europea hanno indicato «di stare ancora finalizzando il testo».
Non è bastato l’abbassamento delle aspettative dall'atteso trattato con valore giuridico, previsto alla Conferenza di Bali del 2007, ad un semplice “accordo” politico sugli obiettivi di riduzione. Ieri neanche il tanto atteso arrivo del presidente americano Barack Obama ha fatto il miracolo. Si tratta di “una svolta significativa e senza precedenti”, ha commentato l'inquilino della Casa Bianca lasciando la città, che se per il promesso accordo vincolante “ci vorrà molto tempo”. In termini di prospettiva però, ha ammesso Obama, si tratta di “un punto morto” e “la scienza ci mostra che c'è bisogno di passi più aggressivi in futuro”.
Rimandata al primo febbraio la decisione sulla questione centrale: la riduzione delle emissioni di Co2 entro il 2020, l'unica data abbastanza ravvicinata da costringere i leader politici a prendere subito misure concrete, ma anche quella sui tagli al 2050. Resta solamente l'obiettivo di mantenere l’aumento di temperatura del pianeta sotto i 2 gradi centigradi. È un “fiasco totale”, ha accusato Greenpeace. “Non c'è un solo punto in cui si parla di obbligatorietà degli accordi. Il protocollo di Kyoto era insufficiente, ma almeno era vincolante”. Secondo l’intesa, per aiutare i Paesi in via di sviluppo a sopravvivere al cambiamento climatico oramai inevitabile, le Nazioni più ricche stanzieranno degli aiuti immediati per 10 miliardi di dollari l’anno tra il 2020 e il 2012 e un fondo a lungo termine fino al 2020 che a pieno regime dovrebbe arrivare a 100 miliardi di dollari l'anno.
È necessario “accettare un accordo imperfetto” aveva detto Obama all'arrivo, promettendo che gli Stati Uniti continueranno sulla strada della riduzione delle emissioni a prescindere del risultato di Copenaghen. La platea ha applaudito educatamente, ma l'entusiasmo del “yes we can” sembra lontano anni luce. Sono rimasti delusi i tanti che avevano scommesso un rilancio americano negli impegni di riduzione delle emissioni. Il Presidente americano è arrivato a Copenaghen e mani vuote e i tagli della Co2 emessa dagli Usa rimangono quelli in discussione al congresso: il 4% entro il 2020, contro un 25-40% indicato dagli scienziati come necessario fermare il riscaldamento a due gradi. Anche la Cina, aveva precisato il premier cinese Wen Jiabao, è impegnata “a raggiungere e anche a superare gli obiettivi necessari per la lotta al riscaldamento globale” a prescindere dal risultato di Copenaghen. Washington e Pechino sono stati i protagonisti assoluti della giornata e i diversi incontri bilaterali tra Obama e Jiabao hanno scandito gli alti e bassi del negoziato.
“Stati Uniti e Cina producono la metà delle emissioni mondiali”, ha ricordato il premier svedese e presidente di turno dell'Ue, Fredrik Reinfeldt. A dividere le due potenze però, ha riferito il presidente francese Sarkozy, è stato anche il rifiuto della Cina “ad accettare l'idea di un organismo di controllo” sugli impegni di riduzione e sull'utilizzo dei fondi. E' la “trasparenza” che il Segretario di Stato americano Hillary Clinton aveva indicato come condizione necessaria per la partecipazione al fondo di aiuti da 100 miliardi di dollari. Il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo ha assicurato che l'Italia ha lavorato “assieme ai partner europei”. Per Greenpeace però il Paese si è distinto in negativo per il tentativo di “bloccare la decisione europea di migliorare l'impegno unilaterale di riduzione delle emissioni al 2020 portandolo dal 20% al 30%”.
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