Lettera aperta di Antonello De Pierro,il poliziotto giornalista aggredito dal boss Spada e punito paradossalmente dalla Polizia
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AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
ALLA PRESIDENTE DEL SENATO
AL PRESIDENTE DELLA
CAMERA DEI DEPUTATI
AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
AL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
AL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE
PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO
DELLE MAFIE E SULLE ALTRE ASSOCIAZIONI
CRIMINALI, ANCHE STRANIERE
AL PROCURATORE NAZIONALE ANTIMAFIA
AL PROCURATORE DISTRETTUALE ANTIMAFIA ROMA
AL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI ROMA
AL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
DI CIVITAVECCHIA
AL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
DI VELLETRI
AL PROCURATORE GENERALE
DELLA CORTE DEI CONTI
AL PROCURATORE DELLA CORTE DEI CONTI
PER IL LAZIO
AL MINISTRO DELL’INTERNO
AL CAPO DELLA POLIZIA-
DIRETTORE GENERALE DELLA
PUBBLICA SICUREZZA
AL DIRIGENTE V ZONA POLIZIA DI FRONTIERA –
LAZIO-SARDEGNA-UMBRIA
AL DIRIGENTE DELL’UFFICIO
DI POLIZIA DI FRONTIERA AEREA
DI FIUMICINO
AL QUESTORE DI ROMA
AL DIRETTORE DEL SERVIZIO
PERSONALE TECNICO-SCIENTIFICO
E PROFESSIONALE DEL DIPARTIMENTO
DELLA PUBBLICA SICUREZZA
AL DIRETTORE DELL’UFFICIO
ATTIVITA’ CONCORSUALI
DEL DIPARTIMENTO
DELLA PUBBLICA SICUREZZA
AL DIRIGENTE DELL’UFFICIO
SANITARIO PROVINCIALE DI ROMA
DELLA POLIZIA DI STATO
AL DIRIGENTE DEL COMMISSARIATO DI P.S.
LIDO DI ROMA
AL PREFETTO DI ROMA
AL MINISTRO DELLA DIFESA
AL CAPO DI STATO MAGGIORE DELLA DIFESA
AL CAPO DI STATO MAGGIORE DELL’ESERCITO
AL CAPO DEL COMANDO LOGISTICO
DELL’ESERCITO
AL CAPO DEL COMANDO DI SANITA’
E VETERINARIA DELL’ESERCITO
AL RESPONSABILE DEL DIPARTIMENTO
MILITARE DI MEDICINA LEGALE DI ROMA
AL PRESIDENTE DELLA C.M.O. POLIZIA DI STATO ROMA
AL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE
MEDICA INTERFORZE DI 2^ ISTANZA
AL COMANDANTE GENERALE
DELL’ARMA DEI CARABINIERI
AL COMANDANTE INTERREGIONALE
CARABINIERI “PODGORA”
AL COMANDANTE LEGIONE CARABINIERI LAZIO
AL COMANDANTE PROVINCIALE
CARABINIERI ROMA
AL COMANDANTE DELLA
COMPAGNIA CARABINIERI DI VELLETRI
AL SINDACO DI ROMA CAPITALE
AL COMANDANTE GENERALE
DELLA POLIZIA LOCALE
DI ROMA CAPITALE
AL SEGRETARIO GENERALE SIULP
AL SEGRETARIO GENERALE PROVINCIALE
ROMA SIULP
AL SEGRETARIO GENERALE SAP
AL SEGRETARIO GENERALE PROVINCIALE
ROMA SAP
AL SEGRETARIO GENERALE
FEDERAZIONE COISP – MOSAP
AL SEGRETARIO GENERALE PROVINCIALE
ROMA FEDERAZIONE COISP-MOSAP
AL SEGRETARIO GENERALE SIAP
AL SEGRETARIO GENERALE PROVINCIALE
ROMA SIAP
AL SEGRETARIO GENERALE
FSP POLIZIA DI STATO
AL SEGRETATIO GENERALE PROVINCIALE
ROMA FSP POLIZIA DI STATO
AL SEGRETARIO GENERALE SILP CGIL
AL SEGRETARIO GENERALE
PROVINCIALE ROMA SILP CGIL
AL SEGRETARIO NAZIONALE ANFP
A TUTTI GLI ORGANI DI STAMPA
Al fine di garantire la massima diffusione si inoltrerà altresì, prossimamente, per conoscenza:
A TUTTI GLI UFFICI GIUDIZIARI
A TUTTI GLI UFFICI DEL MINISTERO DELL’INTERNO E DELLA POLIZIA DI STATO
A TUTTI GLI UFFICI DELL’ARMA DEI CARABINIERI
A TUTTI GLI UFFICI DI ROMA CAPITALE
Con espressa riserva di aggiungere al suddetto elenco, qualora lo ritenessi opportuno, ogni altro riferimento, istituzionale e non.
Vi prego di prendervi qualche minuto di tempo e di leggere attentamente il messaggio di seguito formulato, che ho già rivolto a chiunque facesse parte della mia rete socio-amicale e ora porto all’attenzione del parenchima sociale sano tra i corpi collettivi della nostra amata Italia. Mi scuso per la lunghezza, ma mi è parso necessario dovere esternare con dovizia di particolari quanto leggerete. Vi ringrazio di cuore per la pazienza.
“Cari amici, la maggior parte di voi mi conosce in virtù della mia attività giornalistica e politica, che ho sempre cercato di esercitare al meglio, costantemente a tutela e al servizio delle cellule più deboli del nostro tessuto sociale, fedele a quei parametri valoriali che hanno scandito il mio percorso esistenziale, nutrendolo quotidianamente al banco di alcuni riferimenti concettuali che ho eletto a principi inderogabili e imprescindibili. Sto parlando della legalità e della giustizia, intimamente collegati all’etica, modelli comportamentali che ho scelto come granitica piattaforma su cui edificare l’impalcatura del mio modus vivendi. Chi di voi mi conosce meglio sa di cosa parlo ed è consapevole dell’autenticità di quanto affermo, alla luce delle tante battaglie sostenute a difesa dei diritti dei corpi collettivi, in particolar modo di quei soggetti socialmente più fragili, calpestati e mortificati spesso dal potere di pochi eletti, i quali non hanno remore a marciare, con i cingoli dell’arroganza e della prepotenza, sopra la loro dignità, schiacciandola e riducendola a puro sussurro. Quanti tra voi hanno seguito il mio percorso giornalistico sanno che non ho mai accettato passivamente simili circostanze e mi sono sempre attivato per combatterle, incassando spesso l’ incommensurabile soddisfazione, umana prima che professionale, di aver restituito il sorriso a chi, con disarmante e frustrante rassegnazione, credeva di averlo perso per sempre. E coloro i quali avevano agitato, con ributtante alterigia, lo scettro di un’abietta ostentazione autoritaria, sono stati costretti a piegarsi, eccome se l’hanno fatto, e a scusarsi pubblicamente, di fronte al doveroso riconoscimento di diritti sacrosanti, a cui non hanno potuto più sottrarsi, che fino ad allora avevano clamorosamente negato. Un intimo e profondo appagamento morale, che mi ha ogni volta ripagato dell’enorme impegno profuso per ottenere i risultati agognati e mi ha fatto amare sempre di più l’attività giornalistica, che ho cercato di espletare con la massima professionalità possibile, prima da collaboratore di varie testate e poi con responsabilità direttive e gestionali, in particolare da direttore di Radio Roma, al cui timone ho avuto la fortuna, bruciando le tappe, di approdare quasi subito (un anno dopo l’iscrizione all’ordine), da direttore del portale di informazione Italymedia.it, fondato da me e dal mio storico amico, socio e collaboratore Dario Domenici, e da capo ufficio stampa presso il partito politico Italia dei Valori. Ogni volta, anche presso le altre testate che mi hanno visto alla loro direzione, ho cercato di permeare le coscienze di coloro i quali lavoravano con me (nel tempo si sono succeduti in tanti,circa 400) con quegli standard valoriali, che custodivo ben incisi nel mio patrimonio dnatico, ancorandoli prima di tutto a una rigorosa dimensione deontologica, nel cui solco poter sviluppare ogni attività assolta sui percorsi ardui e impervi del mestiere. Oggi posso osservare con orgoglio alcuni di loro viaggiare a vele spiegate sui viali di un brillante successo carrieristico, con impeccabile serietà professionale, in cui riesco a scorgere, compiaciuto, tante venature di quell’impostazione etica da me fermamente pretesa.
La stessa piattaforma valoriale su cui ho eretto le fondamenta della mia esistenza l’ho mantenuta intatta e trasferita anche nell’attività politica, quando, forte dell’esperienza maturata in ambito comunicativo con l’Italia dei Valori, ho deciso di fondare il movimento politico Italia dei Diritti. Un’esperienza fantastica che mi ha permesso di penetrare nel tessuto amministrativo di varie realtà territoriali, insieme a tanti di coloro i quali hanno sposato il mio progetto legalitario, e di dare compiutezza ai propositi di combattere consolidate sacche clientelari, tanto dure da debellare, e il mancato rispetto delle regole imposte e disciplinate dalle prescrizioni ordinamentali, garantendo così l’interesse supremo dei corpi collettivi. Un amministratore pubblico, destinatario di un’attribuzione mandataria da parte del corpo elettorale, per mezzo della sua espressione consensuale, è investito di un’enorme responsabilità e di un grande onore, quello di servire fedelmente le istituzioni. E io, queste peculiari tipizzazioni, funzionali al munus rivestito, le ho compiutamente acquisite sotto il profilo ontologico-soggettivo e condotte a una piena concretizzazione nell’espletamento dell’attività amministrativa, mosso dal comando imperioso da esse promanante.
Ma prima di approdare, con passionale ed entusiastico coinvolgimento, all’esercizio dell’impegno partecipativo di natura politica, avevo già da tempo vissuto l’orgoglio di essere al servizio dell’apparato istituzionale e pertanto dei cittadini. Infatti pochi tra voi sanno che per 27 anni ho avuto l’onore di essere professionalmente integrato nei ruoli della Polizia di Stato. Una scelta dettata dalla già menzionata grande devozione al rispetto della legalità e della giustizia. Quando superai il concorso per accedere alle file dei servitori dello Stato in divisa, non esitai un attimo a lasciare gli studi di Medicina e Chirurgia, per inseguire quel sogno di potermi mettere al servizio della gente, per contribuire alla sicurezza della comunità e lottare contro il crimine, a presidio dell’osservanza delle norme dell’ordinamento giuridico. Un approdo lavorativo mosso principalmente da un’elaborazione decisionale di matrice passionale e non solo da un’esigenza occupazionale. Al solo parlarne provo ancora oggi i medesimi brividi, generati dall’entusiasmo esasperato della matricola, degli albori della meravigliosa esperienza che ha accompagnato buona parte del divenire fenomenico nel mio cammino biologico. Un impulso prodotto dall’idea inossidabile e robusta, da sempre nutrita, di considerare la garanzia della giustizia come etica di una nazione. I progetti elaborati e proiettati sulle pareti del mio futuro professionale parlavano di un accesso alla carriera di funzionario. Infatti, il primo punto fissato nel tracciamento intenzionale, prevedeva l’iscrizione al corso di studi di giurisprudenza e il conseguimento del relativo titolo accademico. Una pianificazione poi provvisoriamente accantonata e solo rimandata in quanto mi si presentò l’occasione di intraprendere, parallelamente all’attività istituzionale, la carriera giornalistica, che tante soddisfazioni mi ha regalato e continua ancora a darmi. Alcuni incarichi apicali nel campo dell’informazione, che si sono succeduti negli anni, e il relativo impegno non trascurabile, mi indussero per lungo tempo a procrastinare l’approdo alla formalizzazione universitaria degli studi giuridici, che comunque avevo intrapreso a titolo privato.
Nel 2005 iniziò, come molti di voi sanno, una vicenda kafkiana per me e la mia famiglia. Credendo di vivere in uno stato di diritto pensavamo che, attivando gli organi preposti alla vigilanza e alla repressione di atti illeciti, ci sarebbe stata una risposta istituzionale secondo le statuizioni del tessuto normativo. Non avevamo fatto i conti con un sistema inquinato che si autoalimenta con reciproche complicità, calpestando ogni logica giuridica in nome del tornaconto personale. E quando il diritto si infrange contro le più elementari ragioni di giustizia ci sono profonde distorsioni nei meccanismi istituzionali.
Dopo varie denunce presentate da me e da mia madre, dirigente statale in pensione, nei confronti di alcune persone in rapporti con il noto clan Spada di Ostia, per abusi edilizi e altri presunti reati, nonché contro alcuni esponenti istituzionali che avevano omesso di censurarne la condotta, i denunciati, Alfonso De Prosperis, noto imprenditore della lavorazione del ferro presso l’idroscalo di Ostia, e sua moglie (legalmente separata) Angela Falqui, accompagnarono sotto casa nostra, con la loro autovettura, il noto boss Armando Spada, esponente di spicco dell’omonima organizzazione criminale di Ostia, che minacciò di morte e aggredì con un bastone me e mio fratello, affinché desistessimo dal continuare a denunciare i reati di coloro i quali definì “miei amici”.
Il personale sanitario dell’ospedale “Grassi” di Ostia riscontrò le lesioni provocate a me e mio fratello dall’aggressione mafiosa. I componenti della volante della Polizia di Stato intervenuta in loco si rifiutarono di sequestrare il bastone con cui lo Spada ci aveva colpito. Nonostante le mie rilevanti insistenze non vollero nemmeno procedere a perquisizione personale. Infatti mi ero insospettito in quanto il boss aveva portato la mano alla tasca come per estrarre un coltello, ma poi aveva desistito dopo che mi ero qualificato come appartenente alla Polizia di Stato. Il mio sospetto era alquanto fondato. Lo stesso Spada alcuni mesi dopo fu arrestato per aver tagliato la gola a un uomo con un coltello.
Il procedimento attivato dalla denuncia presentata da noi, per quella che era stata apoditticamente un’aggressione mafiosa, fu ascritto alla competenza del Giudice di Pace, a seguito di un’informativa di P.G., redatta presso il Commissariato di Ostia, che ci sembrò non proprio idonea a tratteggiare fedelmente la dinamica di un episodio di minacce e aggressione da parte di un boss mafioso, ma soprattutto perché l’oggetto del reato (bastone) non fu posto sotto sequestro. Ma peggio accadde presso la caserma dei Carabinieri di Casal Palocco, a seguito di una denuncia che i signori De Prosperis/Falqui redassero contro di noi, probabilmente per attenuare la presenza ingombrante dello Spada, con una versione dei fatti che agli occhi, anche distratti, di chiunque abbia un pizzico di buonsenso e obiettività non può che risultare sprezzante del ridicolo. Quello che era diventato “il sig. Spada” fu fatto nascondere nell’autovettura per evitare un suo coinvolgimento nell’aggressione che io e mio fratello avevamo posto in essere contro coloro i quali avevano accompagnato il boss mafioso di Ostia, che si era spaventato di fronte a noi. Per ciò che riguarda il bastone servito per colpire mio fratello era cambiato il suo utilizzo nella circostanza. In base alla loro versione dei fatti era servito allo Spada per difendersi da un “pericoloso animale” che io gli avevo aizzato contro, con riferimento al nostro cane, che era uscito dall’abitazione saltellando come qualsiasi cucciolo di 6 mesi di vita (era questa la sua età anagrafica all’epoca). Sulla conseguente informativa di P.G., redatta presso la suddetta caserma di Casal Palocco, a firma del maresciallo Giuseppe Liguori, venne indicato il boss Armando Spada come teste, ma non vennero riportati i suoi dati anagrafici (luogo e data di nascita), né fu scritto nulla sulla sua nota caratura criminale. Comunque, il procedimento penale che vedeva indagati me e mio fratello, con l’unica “colpa” di aver subito un’aggressione mafiosa, non fece registrare alcuna istruttoria dibattimentale e fu inghiottito dalle sabbie mobili della prescrizione.
Ebbene, in base a questa circostanza, il dott. Tiziano Vetro, allora direttore della V Zona della Polizia di Frontiera di Fiumicino e titolare della potestà disciplinare circa le mie condotte in afferenza al mio profilo professionale, considerò affidabili le deliranti e assurde affermazioni dei signori De Prosperis e Falqui, che avevano accompagnato il boss Spada per porre in essere l’intimidazione mafiosa, e ritenne che il mio comportamento da poliziotto, vittima della sopracitata aggressione, tengo a ripetere di matrice mafiosa, fosse meritevole di una sanzione disciplinare severa e avviò un procedimento affinché fossi sottoposto al giudizio del Consiglio Provinciale di Disciplina. L’ipotesi irrogativa fu individuata nella punizione estrema della destituzione. In pratica io, da sempre impegnatissimo per garantire e difendere il rispetto della legalità e della giustizia, da poliziotto in primis, ma anche nell’esercizio delle attività giornalistica e politica (e in ragione del corposo supporto documentale e probatorio formatosi negli anni sfido chiunque a smentire tale asserzione), non meritavo di continuare a far parte dei ruoli della Polizia di Stato. In sede di processo disciplinare l’ipotesi iniziale fu derubricata e mi fu comminata la pena della deplorazione, ugualmente inaccettabile per chi non solo non ha commesso nulla, ma è stato vittima di un’azione malavitosa da parte di un boss mafioso. La notifica del procedimento disciplinare avviato dal dott. Vetro ha cagionato ingenti danni alla mia persona, specie di natura clinica (a parte il prevedibile e fisiologico stress emotivo fui costretto solo pochi mesi dopo a un approccio farmacologico, pressoché definitivo, per la cura dell’ipertensione arteriosa sistemica, manifestatasi proprio in quel frangente e che proprio ultimamente mi ha procurato una retinopatia ipertensiva), ma anche carrieristici e patrimoniali di non poco conto. E non solo a me, ma a tutta la collettività.
Nell’immediatezza del fatto fui colto da reattività ansiosa situazionale, direi fisiologica di fronte a un simile provvedimento, peraltro con la triste e dolorosa consapevolezza di essere stato la vittima dell’episodio contestato. Poche ore dopo fui convocato dall’allora dirigente dell’Ufficio di Polizia di Frontiera Aerea, la dottoressa Rosa Tabarro, l’unica, tra il personale apicale e subapicale, a esprimere parole di conforto e di vicinanza a un dipendente già duramente provato da tutta la vicenda, peraltro già nota presso quegli uffici, e dalle tante collusioni istituzionali annesse, che ora stava assaporando anche il sapore amaro della beffa come destinatario di una paradossale contestazione disciplinare di grado estremo. Ma a parte l’umana comprensione, la dottoressa Tabarro non considerò nemmeno l’ipotesi di una revoca in autotutela di fronte a un provvedimento tanto assurdo.
Mi chiese di consegnare spontaneamente l’arma d’ordinanza. Poi fui inviato da parte del medico della Polizia di Stato presso la Commissione Medica Ospedaliera di Roma Cecchignola per essere sottoposto a visita collegiale, al fine di verificare la mia idoneità al servizio, con la formulazione diagnostica di “ansia reattiva situazionale e ipertensione arteriosa” (infatti i valori pressori, a seguito dell’episodio notificatorio dell’avvio procedimentale, si erano alzati di molto). In pratica io, vittima, sotto casa mia, di un atto criminoso da parte del boss Spada, recatosi appositamente lì al fine di compierlo, venivo strappato al mio lavoro, che stavo svolgendo con grande passione e abnegazione, per essere sottoposto all’umiliante iter delle visite mediche accertanti la mia idoneità al servizio, e venivo lasciato in malattia per oltre un anno, a spese dei contribuenti, solo perché il dott. Vetro aveva creduto alle affermazioni degli amici del boss in questione, che l’avevano accompagnato in auto per fargli compiere l’azione delittuosa.
Al termine dei vari accertamenti, terminato anche l’iter disciplinare con la già accennata deplorazione (pertanto anche altri appartenenti di vertice della Polizia di Stato avevano creduto alla versione degli amici di un boss mafioso, ritenendomi colpevole, ma non tanto da essere destituito), rientrai in servizio, ma con una prospettiva di carriera bloccata. Infatti il mio rapporto informativo, già penalizzato dagli effetti di una gravissima situazione di mobbing subita in passato (in un altro reparto capitolino tra il 2001 e il 2005) ed esauritasi nella sua messa in pratica soltanto a seguito di un esposto presentato presso la Procura della Repubblica, a causa della deplorazione comminatami, subì una variazione peggiorativa e si attestò sotto il giudizio di buono, circostanza che tradotta in termini carrieristici dispiegava effetti consistenti nel naufragio di ogni possibilità di avanzamento professionale ed economico per molti anni. Tale situazione fu aggravata dall’esclusione dal concorso da vice ispettore proprio a causa della sanzione ascrittami. Dopo le notifiche di questi ultimi provvedimenti, che andavano ad aggiungersi, essendone tra l’altro la conseguenza diretta, a quanto già avvenuto a livello procedimentale, fui inviato nuovamente presso la Cmo, a causa di una nuova manifestazione ansiosa reattiva e sfido chiunque a non esserne vittima a seguito di un tale accanimento da parte della Polizia di Stato, che invece di starmi accanto in quanto vittima di mafia, aveva immotivatamente infierito su di me proprio credendo a quanto affermato da chi di quella stessa mafia era sodale. Dopo un lungo periodo trascorso in malattia, non richiesto, a carico dei contribuenti (giova ricordare, sempre riconducibile al procedimento avviato dal dott. Tiziano Vetro, che aveva dato per buone le dichiarazioni di chi era vicino alla mafia), questa volta, al termine di un ulteriore cospicuo lasso temporale passato in convalescenza, sempre a carico dei contribuenti, di un poliziotto strappato alla sua attività istituzionale da un provvedimento che, secondo i canoni della logica, non avrebbe mai dovuto esistere, sono stato giudicato non idoneo in maniera assoluta al servizio di polizia.
A mio avviso e di quanti ne hanno avuto cognizione e mi conoscono, il provvedimento della Cmo, non corrisponde al mio reale stato clinico, ma mi giunge con un sapore alquanto epurativo. Infatti, non solo non ho mai avuto alcuna necessità di sottoporsi ad alcun tipo di approccio curativo e pertanto di fare ricorso ad uno specialista, ma la mia intensa attività politica (sono titolare di ben 3 cariche elettive), sociale e giornalistica, cresciuta enormemente da quanto sono assente dal servizio (non per mia scelta e pertanto, in perfette condizioni di salute, non ho ritenuto opportuno fermarmi), a mio avviso, e non solo, appare assolutamente in insanabile conflitto col giudizio diagnostico e prognostico formulato dalla Cmo (mi si indica addirittura come soggetto con rapporti sociali ridotti, circostanza agevolmente confutabile anche da un’infinita e pubblica piattaforma probatoria edificatasi in tanti anni di intense e ovvie relazioni sociali, che ha suscitato l’ilarità di chiunque ne sia venuto a conoscenza),che mi condannerebbe alla quiescenza a poco più di 50 anni, con una pensione pagata da chi è costretto a lavorare fino a 67 anni e oltre. Peggio ancora sarebbe se tale stato morboso fosse reale, in quanto direttamente dipendente da quell’iter procedimentale avviato dal dott. Vetro, il quale ha creduto alla versione di persone in stretti rapporti con un’organizzazione mafiosa, anche se di fatto, qualunque sia la verità clinica, in ogni caso l’esito medico-legale statuito dalla Cmo è una diretta conseguenza di quanto deciso dallo stesso dott. Vetro, che ha strappato ai servizi d’istituto un poliziotto.
Inevitabilmente mi sono visto costretto a proporre ricorso di gravame alla Commissione Medica di II Istanza, al fine di vedere accogliere le mie doglianze circa la valutazione del mio reale stato clinico e affinché si esprima in riforma di quanto precedentemente decretato dal precedente consesso medico-legale. L’ho fatto anche perché non sarebbe eticamente giusto dover gravare sulla collettività, costretta a corrispondermi un trattamento pensionistico in assenza di una patologia che giustifichi tale approdo decisionale, deciso a dimostrare in ogni sede che la formulazione diagnostica partorita dai medici della Cecchignola non è conforme al reale quadro clinico a me riconducibile.
E’ questo il grande detrimento arrecato ai contribuenti come conseguenza dell’avvio del noto procedimento da parte del dottor Vetro, che di fatto ha privato il tessuto sociale di un’unità lavorativa nel pieno della sua potenzialità energetica e della sua capacità produttiva.
Lo Stato ha investito dei fondi per formare un poliziotto, che aveva scelto questo lavoro con grande passione, in servizio e fuori dal servizio, come si evince palesemente dalla grande quantità di atti prodotti anche fuori dall’orario di lavoro, con vari interventi che hanno contribuito a rendere più sicuri i cittadini, arrestando rapinatori, sventando furti, etc., non tirandosi mai indietro di fronte a quanto gli veniva imposto dal suo ruolo istituzionale. E ora, esclusivamente a causa di un procedimento avviato dal dott. Vetro, solo perché quest’ultimo ha ritenuto più attendibili le parole di gente vicina alla mafia, da circa 4 anni il suo apporto sociale in qualità di poliziotto, da sempre acerrimo propugnatore dei valori di legalità, giustizia ed etica (qualcuno ha avuto anche l’ardire di affermare che inseguire la verità in nome di questi valori non è compatibile col servizio di polizia), è venuto meno e probabilmente lo resterà per sempre. Ho chiesto a gran voce che quel provvedimento così paradossale venisse revocato in autotutela (lo ha fatto anche mia madre rivolgendosi direttamente alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e al Capo della Polizia Franco Gabrielli), ma finora alcuna risposta è pervenuta in merito.
Se qualcuno si illude che tutto ciò possa finire come se nulla fosse accaduto e su questa vicenda possa calare il velo dell’oblìo sbaglia di grosso.
Da oggi, per me e per il movimento politico Italia dei Diritti, che presiedo, inizia una tetragona battaglia senza precedenti, condotta a oltranza, affinché sui fatti in argomento possano accendersi perpetuamente i riflettori e vengano esposti al giudizio della pubblica opinione. E credo che sarà davvero arduo imbattersi in qualcuno, nel tessuto sociale sano della nostra nazione, che possa esprimersi a favore di un procedimento disciplinare, avviato dalla Polizia di Stato, nei confronti di un poliziotto, in riferimento a un episodio in cui è stato vittima di un’aggressione con minacce di morte da parte di un boss mafioso. L’unica cosa certa è che non mi rassegnerò e non mi fermerò di fronte a questa vergogna, che ha calpestato la mia dignità, riducendola a puro sussurro.
Si parla tanto di suicidi nelle forze dell’ordine e mi piacerebbe indagare le vicende professionali e disciplinari delle vittime. La nostra battaglia sarà anche a favore di tutti gli uomini in divisa affinché fatti del genere non si ripetano mai più. Promuoveremo ogni iniziativa che riterremo idonea a suscitare l’indignazione anche dell’ultimo cittadino. Organizzeremo manifestazioni di protesta presso ogni sede istituzionale, partendo da quelle della Polizia di Stato e del Ministero dell’Interno, per continuare con tutte quelle che riterremo opportune, comprese le redazioni di organi di stampa e televisione. Avremo a disposizione costantemente il nostro ufficio stampa per tutti i lanci mediatici dell’accaduto, con comunicati e video su tutte le piattaforme disponibili. Io e la mia famiglia siamo stati finora coinvolti in una vicenda kafkiana e ci siamo trovati a fronteggiare personaggi legati al clan Spada di Ostia e tutte le cellule deviate e colluse delle istituzioni che li hanno favoriti, ma mai avremmo pensato che io avrei dovuto difendermi anche dalla mia tanto amata Polizia di Stato, che invece di tutelarmi (e i fatti erano già noti in atti che il mio reparto già custodiva) mi ha avviato un procedimento disciplinare e mi ha inflitto una sanzione che mi ha notevolmente indebolito nella mia battaglia contro gli amici degli Spada, che di fatto, e questa è la triste realtà, sono stati indirettamente favoriti nella circostanza e hanno condizionato il mio divenire carrieristico.
A chi finora è rimasto indifferente verrà chiesta la propria opinione ufficialmente e pubblicamente tramite i canali mediatici. Perché di fronte a una circostanza del genere le risposte possono essere solo 2. O si è d’accordo con un procedimento per destituzione a carico di un poliziotto, in riferimento a un episodio in cui questi è stato vittima di un boss mafioso, oppure non lo si è. Delle due l’una. Il silenzio non può essere ammesso.
E lo chiederemo in primis al dott. Tiziano Vetro, il quale prima di approdare alla meritata quiescenza e godersi la sua pensione, ha assunto una decisione incomprensibile e inaccettabile che mi ha rovinato professionalmente e mi ha condannato, almeno per ora, alla pensione a poco più di 50 anni, ma mi ha penalizzato notevolmente anche sotto il profilo esistenziale. Da lui vorremmo sapere anche come sia stato possibile tutto questo. Perché qualcuno, alla luce della assurdità della vicenda in esame, potrebbe porsi un quesito: “Ma la polizia è con la mafia o con i poliziotti?”. Io che ho fatto parte (e ancora sono legato con un sottile filo) della Polizia di Stato so per certo che la polizia è contro la mafia. E’ per questo che è ancora più importante un intervento chiarificatore in merito.
Come faremo con la ministra dell’Interno Lamorgese e col capo della Polizia Gabrielli, che ha lavorato a stretto contatto con il dott. Vetro quando era a capo della Protezione Civile. Qualcuno dovrà pur spiegarcelo come sia potuto accadere. E al prefetto Gabrielli chiederemo anche di revocare in autotutela tutta la vicenda disciplinare, quantomeno per limitare gli ingenti danni provocati.
Ma chiederemo un’opinione sulla vicenda (e in questo caso anche come sia stato possibile giungere a un processo disciplinare e alla comminazione di una sanzione) altresì a tutti i dirigenti e funzionari coinvolti nel procedimento, che hanno continuato tranquillamente la loro carriera mentre la mia, quella di un poliziotto vittima di mafia, è stata annientata. A iniziare dalla dottoressa Eva Claudia Cosentino, funzionario istruttore nel procedimento, la quale, pur essendo stata resa ben edotta in afferenza ai fatti ed essendo statale fornita una cospicua documentazione in merito, ha insistito per la destituzione. Lo chiederemo all’allora questore di Roma Nicolò D’Angelo, il quale aveva conferito l’incarico istruttorio alla dottoressa Cosentino, e al dott. Giovanni Battista Scali, il quale ha presieduto il consiglio di disciplina, che ha irrogato la sanzione della deplorazione, derubricando sì la punizione estrema della destituzione, ma riconoscendo ugualmente meritevole di censura me, aggredito e minacciato di morte dal boss Armando Spada, e agli altri componenti del sopracitato consesso giudicante che si sono espressi favorevolmente per la sanzione.
Ma chiederemo il suo punto di vista, inerente all’evento procedimentale e alla censura concretizzatasi, anche all’attuale dirigente della Polaria di Fiumicino, mio reparto di appartenenza, il dott. Giovanni Casavola, estraneo alla vicenda disciplinare, ma che, messo più volte a conoscenza dei fatti non ha speso al mio indirizzo nemmeno una parola di conforto. Mi sarebbe bastata quella. Come colui il quale è stato a capo della V Zona di Fiumicino fino a pochissimo tempo fa, il dott. Bruno Megale, anch’egli inequivocabilmente a conoscenza dei fatti, ma a quanto pare ha preferito ignorare. Va detto che il dott. Megale, ha raccolto il testimone del dott. Vetro solo pochi mesi dopo (marzo 2017) che quest’ultimo aveva avviato il procedimento in parola (notificato il 7 dicembre 2016) a mio carico ed era in carica a Fiumicino anche all’esito della pronuncia decisionale del consiglio di disciplina (luglio 2017). Ora è stato nominato questore di Reggio Calabria, ironia della sorte proprio la provincia in cui mio cugino, carabiniere, perse la vita in servizio, in un attentato mafioso nel 1994, e la Scuola Allievi Carabinieri reggina è a lui intitolata.
Fortunatamente io, che ho da sempre amato fortemente la Polizia di Frontiera di Fiumicino e ho svolto con impegno anche il ruolo di dirigente sindacale per la Uil Polizia, ho incassato, in compenso, la solidarietà di tantissimi colleghi, scandalizzati e increduli di fronte all’assurda vicenda. In particolare tengo a sottolineare l’espressione, da parte mia, di un sentimento di grande gratificazione per la vicinanza dimostratami dal mio diretto superiore, il dott. Giuseppe Manzo, con cui ho lavorato per molti anni con ampia motivazione professionale, in un rapporto di reciproca stima.
Ma comunque ogni prefetto, come ogni questore, dirigente o funzionario della Polizia di Stato, ma anche ogni ufficiale, dirigente o funzionario degli altri corpi di polizia e delle Forze Armate verrà invitato pubblicamente a esprimersi in merito. Come anche i medici della Cmo che hanno giudicato, con disarmante freddezza e distacco rispetto a una vittima di mafia, il mio stato clinico fino a definirmi non idoneo al servizio di polizia, visto che alla mia domanda specifica de visu non si sono degnati di rispondere. E naturalmente tutti i dirigenti nazionali e provinciali dei sindacati della Polizia di Stato, finora rimasti silenti di fronte a un avvenimento di eccezionale gravità.
Da pochi giorni a comandare la V Zona di Fiumicino è arrivato il dott. Giovanni Busacca, a cui chiederò espressamente un incontro e di attivarsi per addivenire, per le motivazioni abbondantemente esposte in narrativa, a una revoca in autotutela del provvedimento adottato nei miei confronti, che mi restituirebbe la dignità di poliziotto e se unito a un favorevole verdetto medico-legale da parte della Commissione Medica di II Istanza sanerebbe una grottesca vicenda che ormai si trascina da lungo tempo. E se quest’ultima evenienza non si concretizzasse vorrà dire che io, pensionato baby sulle spalle dei cittadini (è questo il messaggio che dovrà principalmente passare all’opinione pubblica) a seguito delle conseguenze di un procedimento travalicante i confini del paradosso, in cui la Polizia di Stato ha perseguito un dipendente con la sola colpa di essere stato vittima di un boss mafioso, inizierò a svolgere la professione giornalistica in via esclusiva, eventualmente anche senza retribuzione (mi occuperò molto anche di questioni inerenti alla Polizia di Stato), e soprattutto continuerò, da presidente del movimento Italia dei Diritti, a lottare, insieme ai tanti dirigenti, eletti e attivisti, per salvaguardare la tutela dei diritti dei cittadini, e a onorare i 3 mandati politici di natura elettiva, come già, perfettamente in ottima salute (a parte i già citati problemi ipertensivi, manifestatisi subito dopo l’avvio del procedimento in questione), sto facendo, arrivando a lavorare fino a 20 ore al giorno per la mia carriera politica (che sembrerebbe in ascesa), un impegno e una profusione di energie un po’ insoliti per chi è stato giudicato affetto da patologia di tipo ansioso così invalidante, con buona pace di chi, inverosimilmente, ha formulato, con riferimento alla mia persona, la grottesca definizione di un soggetto con rapporti sociali ridotti.
Ma verrà chiesto di esprimersi nel merito e contestualmente tributare un messaggio di solidarietà (naturalmente in via ufficiale tramite canali mediatici) a ogni personaggio istituzionale che riterremo utile alla causa, e senz’altro al presidente della Repubblica, del Senato, della Camera dei Deputati, del Consiglio dei Ministri, a tutti i deputati e senatori, a tutti i presidenti di Regione e agli altri esponenti regionali e a tutti i sindaci e amministratori locali. Chiederemo alle assemblee consiliari di tutti i comuni italiani, dando ampia diffusione a mezzo comunicato stampa, di votare una mozione di solidarietà sull’accaduto, che vede un poliziotto punito dopo essere stato aggredito da un boss mafioso. Saranno avviate petizioni sul web. Ma soprattutto chiederemo di esprimere pubblicamente la propria solidarietà nei miei confronti a tutti i miei numerosi amici personaggi pubblici con cui ho avuto rapporti di lavoro nei tanti anni di attività giornalistica, specie nel decennio trascorso come direttore di Radio Roma. E a coloro i quali non rientrano nella mia rete amicale l’invito sarà rivolto mediaticamente. Ma il nostro ufficio stampa sarà a disposizione di chiunque, anche meno noto (attori, attrici, soubrette, cantanti, etc. – o aspiranti tali), crederà di voler lanciare un messaggio di solidarietà in difesa della mia dignità e del mio onore. La possibilità sarà aperta anche a imprenditori che vorranno farlo a nome della loro azienda. Anzi, specie dopo la crisi causata dall’emergenza Covid 19, verrà offerta un’esposizione pubblicitaria gratuita su tutti i canali mediatici da noi direttamente controllati. E comunque, chiunque vorrà registrare un video solidale potrà farlo e questo sarà pubblicato sui canali che attiveremo.
Tutto ciò affinché su questo caso, rimasto ormai fin troppo nell’ombra, anche per mia scelta, in quanto non ho mai voluto che fosse reso noto per tutelare l’immagine di quella Polizia di Stato, che finora poco si è preoccupata dell’intima sofferenza che mi è stata cagionata, non venga mai scritta la parola fine.
Perché su una vicenda come questa è per me un dovere civile e morale tenere alta l’attenzione preso l’opinione pubblica.
Grazie a tutti voi per l’attenzione. Vi abbraccio”.
Antonello De Pierro