Le Interviste

di Gigi Riva
Dal disarmo dei terroristi. Alla presenza di una forza multinazionale. Le condizioni dell'ex premier israeliano colloquio con Ehud Barak
Ehud Barak
Non è pentito, anzi è 'orgoglioso' per aver fatto la cosa giusta decidendo, nel 2000, il ritiro di Israele dal sud del Libano. Così come oggi, se fosse al governo, avrebbe deciso di attaccare gli Hezbollah. Ehud Barak, 64 anni, primo ministro laburista d'Israele dal 17 maggio 1999 al 7 marzo 2001, mediatore a Camp David dove fallì, sotto la presidenza Clinton, la trattativa con Arafat, ha indissolubilmente legato il suo nome al Libano perché in quella terra si sono svolti due degli episodi fondamentali della sua vita pubblica: una da politico e l'abbiamo visto, l'altra da uomo d'azione. Travestito da donna, parrucca nera in testa, due granate nel reggiseno e pistola col silenziatore nella borsetta, guidò il commando che a Beirut assassinò tre dirigenti palestinesi considerati responsabili della strage di Monaco di Baviera. Ex generale, Barak è stato il protagonista di molte azioni dall'esito felice quando serviva nei corpi d'élite dell'esercito, tanto da diventare il militare più decorato della storia d'Israele. Eppure tanto onore guerriero non è servito a metterlo al riparo dalle aspre critiche, soprattutto in questi giorni, per via di quel ritiro che i suoi denigratori preferiscono definire come 'fuga'. Lui lo sa e mette tutta la foga dialettica nel difendere una scelta che rifarebbe anche oggi.

di Gigi Riva

Parla il ministro degli Esteri d'Israele: dietro agli Hezbollah ci sono l'Iran e la Siria. E assieme ad Hamas si sta creando un asse del terrore. Noi combattiamo una guerra che riguarda tutto l'Occidente

Tzipora Livni, ministro degli Esteri d'Israele
La voce di Tzipora Livni, detta 'Tzipi', s'incrina, leggermente, solo quando deve citare Ariel Sharon, il suo mentore. E non è un omaggio formale a un uomo che giace in coma da gennaio e si trova in un ospedale di Tel Aviv, ma la rivendicazione di una continuità politica utile a leggere quanto accade in questi giorni di guerra col Libano. La domanda era: lei è stata una delle persone più vicine all'ex premier, quanto le manca? Quanto avrebbe potuto essere utile in questa fase difficile? Sharon manca e non solo a Israele, ammette la Livni, prima di svelare: "Potrà suonare simbolico, ma nell'ultima riunione di lavoro che abbiamo avuto, proprio il giorno prima che fosse ricoverato, abbiamo discusso del nostro confine nord. A me e agli altri collaboratori ha detto: dovete chiedere con forza alla comunità internazionale di espellere gli Hezbollah dal sud del Libano, non possiamo sopportare questa situazione più a lungo. Ricordo con precisione quell'incontro proprio perché è stato l'ultimo. Abbiamo parlato della possibilità che rapissero civili o militari lungo la frontiera. Io ero ministro della Giustizia, allora".

di Daniela Minerva

Livia Turco alza il dito minacciosa, s'infiamma: chiede rigore e giura rigore. Lei è in campo per combattere la partita politica della sua vita: qui o si cambia la sanità o si muore. Perché una sanità equa è possibile, l'esperienza di molte regioni lo dimostra, e lei dichiara guerra a chi vede nei conti in rosso il segno che un sistema sanitario uguale per tutti non è sostenibile. Se Padoa-Schioppa vuole spendere meno, toccherà a lei fare in modo che non si tocchino i più deboli. Come? All'indomani del Dpf è chiaro soltanto che ai cittadini si chiede di 'partecipare' ai costi. Ancora ticket, insomma: sui ricoveri sotto forma di contributo alberghiero definito sulla base del reddito, e sull'uso improprio del pronto soccorso. E all'opinione pubblica il New Deal sanitario annunciato dalla Turco alle Camere comincia a odorare un po' di vecchio.

di Gigi Riva
Tutti i poteri sui servizi segreti al capo del governo. Una legge di riforma bipartisan che crei il super Cesis. Mentre a Bruxelles è già al lavoro un coordinamento di tutte le agenzie della Ue. Parla il commissario europeo alla Giustizia e sicurezza Franco Frattini
Franco Frattini, commissario europeo
alla Giustizia, libertà e sicurezza
Ripartiamo dal mio progetto di riforma dei servizi. Ne ho parlato con Giuliano Amato. Questa è materia su cui in passato c'è stata convergenza tra maggioranza e opposizione... Franco Frattini, ministro degli Esteri nell'esecutivo Berlusconi all'epoca del sequestro di Abu Omar, ora vicepresidente della Commissione europea e Commissario alla Giustizia, libertà e sicurezza, già presidente del Comitato Parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e ministro per il Coordinamento degli stessi servizi, dunque uno che la materia l'ha a lungo masticata. Frattini anzitutto conferma la linea sempre seguita da Palazzo Chigi: il governo nulla sapeva del rapimento. Aggiunge che non aveva "nessun tipo di competenza" per essere informato se, in ipotesi, la Cia avese chiesto al Sismi una collaborazione nelle 'rendition' di sospetti terroristi. Fornisce, in questa intervista a 'L'espresso', anche una notizia, "che non abbiamo voluto molto pubblicizzare": da almeno un anno funziona a pieno ritmo a Bruxelles un centro di coordinamento dei servizi segreti di tutti i 25 Paesi membri, un luogo dove ci si scambiano analisi e informazioni non classificate. Proprio questa esperienza, che segue da vicino, gli ha permesso di rafforzare dei convincimenti su come vadano riformati i servizi. Sul tema, del resto, era già stato il promotore di una legge approvata al Senato e poi arenatasi alla Camera. Dalla quale si può riaprire il dibattito.

di Lorenzo Soria
L'insopportabile Allen. La divina Streep. I produttori squali. Il grande regista racconta trucchi e segreti della sua arte colloquio con Robert Altman
Quando era bambino, è andato a scuola dai gesuiti. Quando era teenager, scappava spesso di casa la notte per intrufolarsi nei locali della natia Kansas City, che avendo sfidato le leggi sul proibizionismo era diventata un magnete per gangster, prostitute, giocatori d'azzardo, musicisti jazz. Poi arrivò la guerra e Robert Altman divenne un pilota al comando di B-24 nel Borneo. "Un periodo molto eccitante", ricorda. Come accade spesso con gli uomini che lasciano un segno, ben poco nei primi anni di vita dell'autore di 'Nashville' suggerisce che si sarebbe fatto un nome. Ma Altman ha saputo rompere il tradizionale schema hollywoodiano di protagonista-antagonista per narrare invece diverse storie parallele con più personaggi che si sovrappongono. E così, armato delle sue multiple cineprese e del suo senso dell'assurdo, si è trasformato in uno dei più acuti cantastorie del suo paese, raccontando con naturalezza e irriverenza un'America fatta di sognatori e di sogni infranti, di truffatori e di visionari, di eccessi e di bizzarrie.

Dalle missioni aeree nel Pacifico, Altman passò per caso al cinema industriale, poi alla televisione, mettendosi a fare cose tipo 'Bonanza' e finendo per litigare con Hitchcock che lo aveva chiamato per lavorare nella serie 'Alfred Hitchcock presents'. "A parte il fatto che non mi piacevano i suoi film, perché sono troppo curati", ricorda, "un giorno ho detto che una sceneggiatura era brutta e che non intendevo dirigerla. Mi hanno risposto: 'Grazie mister Altman' e non mi hanno più chiamato". Già allora Altman era un ribelle, uno spirito indipendente. Agli occhi degli studios, un rompiballe, tanto che quando fece vedere 'M.A.S.H' per la prima volta, la Fox ebbe la tentazione di cestinarlo. "È il primo film americano a mettere apertamente in ridicolo Dio", scrisse scandalizzato il 'New York Times'. Ma fu un immediato successo. E negli anni a venire Altman realizzò una serie di film che sono entrati nella storia del cinema: 'I compari', 'Il lungo addio', 'California Poker' e quello che per molti resta il suo capolavoro, 'Nashville'.

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